(Cassazione 38952/2007)
Gli abusi sessuali subiti da un minorenne creano anche per i genitori un danno che deve essere risarcito. Lo ha stabilito la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso di un dentista di Monza condannato alla pena condizionalmente sospesa di un anno e due mesi di reclusione per il reato di violenza sessuale “per aver costretto con violenza e repentinità” una bambina di 14 anni “a compiere e subire atti sessuali consistiti in ambigui toccamenti vari e nell’indurre la vittima a toccargli il proprio organo genitale”. L’imputato era ricorso in Cassazione sostenendo che i genitori della bambina non avessero diritto al risarcimento dei danni. La Suprema Corte ha invece ritenuto che “l’abuso sessuale patito da un minore crea indubbiamente un danno anche ai suoi genitori”, i quali, dunque, hanno automaticamente diritto ad essere risarciti dal giudice civile senza che questi adotti una “esplicita motivazione”. L’attribuzione di tale legittimazione iure proprio si fonda infatti anche e soprattutto sul riconoscimento dei «diritti della famiglia» previsto dall’articolo 29 primo comma della Costituzione, il quale riconoscimento deve essere inteso non già restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, ma nel più ampio senso si modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, generando così, non solo doveri reciproci, ma dando luogo anche a gratificazioni e reciproci diritti; da tale rapporto interpersonale discende pertanto che il fatto lesivo commesso in danno di un soggetto esplica i propri effetti anche nell’ambito del rapporto familiare e, nello specifico, “l’abuso sessuale patito da un minore crea indubbiamente un danno anche ai suoi genitori, il quale danno può essere di natura patrimoniale, allorché ad esempio i genitori devono sostenere spese per terapie psicologiche a favore della vittima, o di natura non patrimoniale per le apprensioni o dolori causati dall’illecito. Il danno non patrimoniale può essere liquidato equitativamente dal giudice giacché, come è notorio, non può essere provato nel suo preciso ammontare a differenza di quello patrimoniale in senso stretto”. (04 gennaio 2008)
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, sentenza n.38952/2007
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
Composta dai sigg. magistrati:
Dott. Amedeo Postiglione presidente
Dott. Guido De Maio consigliere
Dott. Ciro Petti consigliere
Dott. Vincenzo Tardino consigliere
Dott. Santi Gazzara consigliere
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Sul ricorso proposto da A. E. F. , nato a Milano il 22 gennaio del 1961, avverso la sentenza della corte d’appello di Milano del 28 settembre del 2006;
udita la relazione svolta dal consigliere dott. Ciro Petti;
sentito il sostituto procuratore generale nella persona del dott. Aurelio Galasso, il quale ha concluso per l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente alla condanna del prevenuto al risarcimento dei danni nei confronti dei genitori della parte offesa;
udito il difensore avv. Clerici Roberto, il quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
letti il ricorso e la sentenza denunciata, osserva quanto segue
IN FATTO
Con sentenza del 28 settembre del 2006, la corte d’appello di Milano, in parziale riforma di quella pronunciata dal tribunale di Monza il 19 gennaio del 2005, appellata dall’imputato e dalla parte civile M. E., riduceva la somma liquidata a titolo di risarcimento del danno ad euro cinquecento per ciascun genitore della vittima e ad euro cinquemila per la parte offesa; revocava la subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della pena al pagamento delle somme liquidate a titolo di risarcimento; confermava nel resto l’impugnata sentenza. In primo grado il prevenuto era stato condannato alla pena, condizionalmente sospesa, di anni uno e mesi due di reclusione, oltre alle sanzioni accessorie, quale responsabile, in concorso di circostanze attenuanti generiche e di quella della minore gravità del fatto, del reato di cui agliartt. 81 capov. e 609 bis c.p. [1] , per avere, con piu’ azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, costretto, con violenza e repentinità, M. E. , di anni quattordici, a compiere e subire atti sessuali consistenti, dapprima, in ambigui toccamenti vari e, da ultimo, nell’indurre la vittima a toccargli il proprio organo genitale. Fatti commessi fino al tre maggio del 2002, allorché la parte offesa si trovava sdraiata sullo poltrona dello studio dentistico del prevenuto.
Secondo la ricostruzione del fatto contenuta nella sentenza impugnata, in occasione di visite odontoiatriche sulla persona della M. , il prevenuto aveva sessualmente abusato della propria paziente dapprima con toccamenti ambigui, consistiti in sfioramenti del seno, nell’invito a toccargli l’addome rivolto alla paziente per farle constatare la posizione dell’appendice intestinale, nell’infilarle un dito in bocca per verificare eventuali infiammazioni del palato, e successivamente con atti espliciti costringendo la paziente a toccargli il proprio organo genitale. In quest’ultima occasione, allorché la natura sessuale del palpeggiamento era divenuta palese ed inequivocabile, la M. si era precipitosamente allontanata dallo studio senza dare al medico neppure la possibilità di completare l’intervento in atto.
Tanto premesso in fatto, la corte osserva che la deposizione della parte offesa era attendibile perché questa si era limitata a riferire quelle che inizialmente erano delle proprie percezioni (sfioramenti casuali del seno etc.) per arrivare all’episodio finale del toccamento dei genitali a seguito del quale si era precipitosamente allontanata dallo studio; che siffatta precipitosa fuga, confermata anche dalla deposizione dell’amica, rendeva credibile la versione della vittima; al contrario non erano attendibili i collaboratori del sanitario allorché avevano affermato di non aver notato alcunché di sospetto, sia perché in occasione dell’ultimo episodio l’assistente dell’imputato si era momentaneamente allontanata dalla stanza e ciò poteva essere accaduto anche in passato, sia perché le porte dello studio, anche se aperte, non consentivano alcuna visuale completa sulla paziente distesa sulla poltrona, tanto piu’ che i vari collaboratori dell’A. erano intenti a svolgere il proprio lavoro e non a «sbirciare» quello che faceva l’imputato, sia infine perché essi avevano interesse a scagionare l’A. per tutelare il buon nome dello studio dove lavoravano.
Ricorre per cassazione l’imputato sulla base di tre motivi.
IN DIRITTO
Con i primi due motivi il prevenuto lamenta insufficienza di motivazione sia in ordine all’ultimo episodio che in merito ai fatti asseritamene verificatisi in precedenza. Assume che la corte territoriale, senza valutare adeguatamente tutte le doglianze mosse con i motivi di appello, aveva ritenuto attendibile la parte offesa, omettendo di indicare le ragioni per le quali i detti motivi di doglianza dovevano ritenersi inaccoglibili. In particolare aveva omesso di apprezzare la testimonianza della sua assistente, signora B. M., la quale ancorché non presente in occasione dell’ultima seduta, aveva tuttavia assistito a tutte quelle precedenti. Contrariamente a quanto affermato dalla corte la predetta teste non aveva alcun interesse a coprire eventuali comportamenti illeciti dell’imputato perché questi era un professionista esterno che fatturava allo studio le sue prestazioni professionali. L’assoluta mancanza di prove in ordine ai fatti commessi prima del 3 maggio del 2005 faceva venir meno la continuazione. Con riferimento all’episodio del 3 maggio, deduce che sussistono quanto meno delle perplessità, in quanto su alcuni punti la versione della parte offesa era stata contraddetta da quella resa da altri testi: in particolare il P. aveva affermato che la porta dello studio era aperta mentre la M. aveva sostenuto che era chiusa; gli altri testi avevano dichiarato di non aver notato alcunché di anomalo.
Con il terzo motivo deduce mancanza assoluta di motivazione in ordine alla doglianza relativa all’inaccoglibilità della domanda di risarcimento avanzata dai genitori della vittima.
I primi due motivi sono inammissibili perché sotto l’apparente deduzione di una presunta insufficienza motivazionale si censura in realtà l’apprezzamento delle prove da parte della corte territoriale, la cui motivazione è esaustiva.
In proposito è opportuno precisare che lo stesso ricorrente non deduce mancanza o incompletezza di motivazione su punti decisivi ma semplicemente insufficienza della stessa in relazione alle questioni poste con i motivi d’appello. Al riguardo si rileva che l’articolo 606 lettera e) fa riferimento alla mancanza, contraddittorietà o illogicità della motivazione ma non all’insufficienza della stessa, insufficienza che viene invece menzionata nell’articolo 547 c.p.p. tra le possibili cause di correzione, ma non è ricompressa per esplicita volontà del legislatore (relazione prog. Prel. 133) tra i vizi del discorso giustificativo giacché essa, per la sua natura non dovrebbe incidere sul nucleo essenziale della motivazione: invero una motivazione carente sul nucleo essenziale del discorso giustificativo dovrebbe considerarsi mancante o incompleta e non semplicemente insufficiente. In ogni caso, a prescindere dall’espressione usata dal ricorrente, nella fattispecie la motivazione non può considerarsi mancante, incompleta o insufficiente. Invero, è pacifico che all’ultimo episodio non era presente la B. e sul punto l’attendibilità della persona offesa è stata confermata dal subitaneo allontanamento della stessa dallo studio dentistico senza neppure attendere il completamento dell’intervento. Sul punto la sentenza ha indicato le ragioni per le quali la versione fornita dagli altri testi non screditava il racconto della vittima e tale motivazione, essendo esente da vizi logici o giuridici, non è censurabile in questa sede.
Per quanto concerne i fatti commessi in precedenza si deve rilevare che trattasi di toccamenti ambigui che potevano essere considerati casuali e che non erano stati percepiti come invasivi della sua sfera sessuale dalla stessa vittima, la quale, solo quando essi erano divenuti inequivocabili aveva compreso che anche quegli atteggiamenti, che essa in precedenza aveva considerato casuali, erano in realtà libidinosi. Pertanto, se tali atti non sono stati immediatamente avvertiti come libidinosi dalla stessa vittima che li subiva, a fortori potrebbero non essere stati percepiti dai collaboratori del medico eventualmente presenti.
Infondato è il terzo motivo.
Il giudice dell’impugnazione è tenuto a prendere in esame censure specifiche e non generiche doglianze specialmente quando dette doglianze sono relative a fatti notori o a orientamenti giurisprudenziali ormai consolidati. Nella fattispecie il difensore delle parti civili in primo grado aveva concluso chiedendo il risarcimento dei danni morali patiti dai genitori della vittima rimettendone la determinazione alla valutazione equitativa del tribunale e sottolineando che, per la giurisprudenza civile, era pacifica la risarcibilità del danno morale in favore dei prossimi congiunti della vittima di un reato.
Siffatta domanda non è stata specificamente contestata dal prevenuto il quale, per mezzo del suo difensore, solo con i motivi d’impugnazione si è limitato ad affermare genericamente che i genitori della vittima non avevano diritto al risarcimento senza tuttavia indicare la ragione della propria affermazione.
In proposito si deve osservare che le Sezioni uniti civili di questa corte, con sentenza n. 9556 del 2002, hanno affermato il principio in forza del quale ai prossimi congiunti della vittima di un reato (in quella fattispecie si trattava di lesioni personali) spetta iure proprio il diritto al risarcimento del danno, avuto riguardo al rapporto affettivo che lega il prossimo congiunto alla vittima, non essendo ostativi ai fini del riconoscimento di tale diritto né il disposto di cui all’articolo 1223 codice civile né quello di cui all’articolo 185 cod penale, in quanto tale danno trova causa diretta ed immediata nel fatto illecito. L’orientamento delle Sezioni unite civili è stato successivamente ribadito dalla terza sezione civile con sentenza n 2888 del 2003. L’attribuzione di tale legittimazione iure proprio si fonda anche e soprattutto sul riconoscimento dei «diritti della famiglia» previsto dall’articolo 29 primo comma della Costituzione, il quale riconoscimento, come statuito da questa corte, sezione terza civile,con la sentenza n. 8827 del 2003, deve essere inteso non già restrittivamente, come tutela delle estrinsecazioni della persona nell’ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, ma nel piu’ ampio senso si modalità di realizzazione della vita stessa dell’individuo alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, generando così, non solo doveri reciproci, ma dando luogo anche a gratificazioni e reciproci diritti. Da tale rapporto interpersonale discende che il fatto lesivo commesso in danno di un soggetto esplica i propri effetti anche nell’ambito del rapporto familiare. L’abuso sessuale patito da un minore crea indubbiamente un danno anche ai suoi genitori, il quale danno può essere di natura patrimoniale, allorché ad esempio i genitori devono sostenere spese per terapie psicologiche a favore della vittima, o di natura non patrimoniale per le apprensioni o dolori causati dall’illecito. Il danno non patrimoniale può essere liquidato equitativamente dal giudice giacché, come è notorio, non può essere provato nel suo preciso ammontare a differenza di quello patrimoniale in senso stretto. Orbene, trattandosi di un diritto ormai pacificamente ammesso dalla giurisprudenza e dalla stessa dottrina, il suo riconoscimento, in mancanza di esplicita contestazione da parte del danneggiante imputato, non imponeva al giudice una esplicita motivazione, tanto piu’ che la somma liquidata a titolo di danno morale (a tale componente del danno era stata limitata la richiesta con le conclusioni presentate al tribunale dal difensore delle parti civili) è obiettivamente modesta (euro 500).
P.Q.M.
LA CORTE
Letto l’articolo 616 c.p.p.
RIGETTA
Il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 21 settembre del 2007.
Il Consigliere estensore Il Presidente
Ciro Petti Amedeo Postiglione
DEPOSITATA IN CANCELLERIA
IL 22 OTTOBRE 2007
tratto da cittadinolex.kataweb.it
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