Il caso
La vicenda — sinteticamente riportata in sede di legittimità nell’esposizione del fatto- è una storia di infedeltà coniugale, finita innanzi al giudice penale, che presenta delle peculiarità degne di attenzione. Il fatto storico è il seguente: il marito — probabilmente insospettito da qualche “strano” comportamento della moglie- rinviene il “diario” della medesima e dalla lettura apprende l’esistenza di una relazione extraconiugale con il cognato. La notizia è come un fulmine a ciel sereno. L’uomo — in preda ad un comprensibile stato d’ira- decide di rendere noto a terzi il comportamento immorale della consorte e spedisce a diversi professori dell’Università di Salerno un plico, contenente stralci del diario della donna di significato inequivoco, nonchè una missiva nella quale la stessa viene definita con appellativi non proprio elogiativi, stante il richiamo a specie animali di basso livello ovvero — se si preferisce una immagine più poetica- alla mitica città di “Troia” accompagnato da espressioni che ne esaltavano la ” grandezza”. Il novello Agamennone non fa ricorso alla violenza per lavare l’onta subita -ancor più ingiuriosa per la consumazione dell’infedeltà con uno stretto congiunto- e decide di rivelare le “virtù ” della moglie, fino a quel momento celate, all’intero ambiente universitario, nella quale la stessa è conosciuta. L’interessata non gradisce la divulgazione della notizia, accompagnata dalla prova documentale dell’adulterio; reagisce sporgendo querela e costituendosi parte civile nel relativo processo per il ristoro dei danni cagionati alla propria immagine, uscita appannata nella stima di amici e conoscenti. L’uomo è condannato sia in primo che in secondo grado per il reato di diffamazione aggravata dal fatto specifico (condanna in appello alla pena di mesi sei di reclusione), oltre al risarcimento del danno in favore della controparte.
Il diritto
La Corte territoriale osservava che
La difesa assumeva l’illogicità e la contraddittorietà della motivazione del giudice d’appello in ordine alla esclusione della provocazione, basata sul presupposto della “non immediatezza” della reazione del 4 agosto alla notizia del fatto sicuramente ingiusto (perchè contrario all’etica sociale), appresa soltanto il giorno precedente e perdurante lo stato d’ira; rilevava in particolare che la Corte era incorsa in errore, confondendo lo “stato d’ira” con “l’impeto d’ira”.
La Suprema Corte —partendo da dati di fatto incontestati, relativi allo svolgimento cronologico degli eventi- riconosceva corretto il ragionamento del giudice del gravame nel ritenere il tradimento coniugale un “fatto ingiusto”, attesa la contrarietà alle regole della fedeltà e della lealtà familiare; ed evidenziava l’ erroneità delle conseguenze giuridiche tratte dagli elementi fattuali. In particolare, osservava che la Corte di Appello aveva equivocato tra lo “stato d’ira”, considerato nell’art. 599 secondo comma c.p., e quell'”impeto d’ira” cui faceva riferimento l’art. 51 c.p. 1889; precisava che la locuzione scelta dal legislatore del 1930, in sostituzione di quella usata dal codice previgente, rappresentava una “condizione psichica complessa, prodotta da una violenta alterazione emotiva, capace di durare — a seconda dei fattori che l’avevano scatenata e delle note caratteriali di ciascuno – per un apprezzabile lasso di tempo”; concludeva, affermando che tale stato non poteva essere inteso soltanto quale “sfogo momentaneo e simultaneo” al fatto che l’aveva causato. La Suprema Corte rilevava l’ulteriore equivoco in cui era incorsa la Corte territoriale, che aveva confuso il requisito dell’immediatezza della reazione con la necessità che tra il compimento della condotta reattiva ed il fatto provocatorio non corresse alcuno spazio temporale.
La Corte di Cassazione richiamava l’orientamento della dottrina e della giurisprudenza, secondo il quale la doveva essere intesa in senso relativo e non assoluto, dovendosi tener conto della situazione concreta e delle modalità della reazione, non potendosi pretendere una contemporaneità, che finirebbe per limitare la sfera d’applicazione dell’esimente, frustrandone la ratio; affermava, in definitiva, che era sufficiente per la ravvisabilità dell’esimente che l’azione reattiva fosse condotta a termine, persistendo l’accecamento cagionato dall’ira e provocato dal fatto ingiusto altrui e che tra la provocazione e la reazione sussistesse una contiguità temporale, non necessitando un’azione istantanea. La Suprema Corte -in applicazione di tali principi- perveniva ad una declaratoria di non punibilità per avere l’imputato agito in uno stato d’ira di particolare intensità.
Conclusioni
Esaurito il discorso di stretto diritto, passiamo a trattare argomenti di tono più leggero, di cui abbiamo dato qualche anticipazione nella esposizione del fatto.
Lo spunto è dato dalla scienza proverbiale ovvero dai modi di dire, che rappresentano la saggezza del popolo nel tempo.
Per quanto riguarda la figura maschile, una prima considerazione nasce dal fatto che il marito ha ricevuto condanna penale e civile, sia in primo che in secondo grado; l’espressione che rappresenta eloquentemente tale risultato la rinveniamo nel vernacolo napoletano: “curnuto e mazziato” ovvero in quello toscano
Quale decisione allora adottare? Il pover’ uomo non se la sentiva di seguire la virtù cristiana del perdono e di mettersi l’animo in pace, voleva una rivalsa per il grave torto subito dal coniuge; faceva quindi ricorso alla “propalazione” delle intimità extraconiugali. Ignorava, però, che rivolgere pubblicamente alla moglie gli appellativi – che Ella probabilmente meritava ma dovevano essere custoditi nel segreto dell’animo – non era consentito dall’ordinamento giuridico, poichè il fatto costituiva un’offesa alla dignità della persona umana costituzionalmente garantita. Ecco perchè l’uomo si è trovato innanzi alla giustizia penale, con le conseguenze sopra evidenziate. L’interessato avrebbe dovuto – al contrario – fare ricorso agli istituti della separazione e del divorzio ed eventualmente ad un’azione risarcitoria.
Per quanto concerne la figura femminile, la gentile Signora probabilmente non si è resa conto di quanto la sorte le sia stata favorevole; la moglie non solo ha goduto i piaceri dell’alcova proibita, ma è sfuggita al triste destino di “Paolo e Francesca”, uccisi dal marito tradito (“Amor condusse noi ad una morte…”, racconta Francesca a Dante); ma se può dirsi scampato il pericolo di morte violenta, resta pur sempre il mistero della “Giustizia Divina” in ordine al peccato. Il Sommo Poeta colloca i due infelici amanti, nel “girone dei lussuriosi”, ove sono travolti da una bufera infernale, come in vita furono trascinati dalla passione. Se non ci fosse stata l’iniziativa della “propalazione” delle sue intimità extraconiugali, l’interessata sarebbe uscita dalla storia pressochè indenne.
La peculiarità della vicenda —costituita dal fatto che Ella abbia richiesto una riparazione economica per “i panni sporchi” portati all’esterno della famiglia — richiama alla mente l’immagine evangelica di chi ricerca “la pagliuzza nell’occhio altrui”, dimenticando “il trave presente nel proprio occhio” (!).
A conclusione di questa nota semiseria — in cui i proverbi e le locuzioni hanno svolto un ruolo importante- non possiamo non evidenziare che la Corte di Cassazione ha correttamente ricostruito il dramma dell’infelice marito, il clima nel quale era maturato il proposito di impartire una severa alla moglie adultera. La fattispecie criminosa in commento nasce dal “dies irae” ossia dal giorno dell’ira, che trova la sua fonte nell’amore tradito, nel vincolo spezzato, nella perfidia dell’inganno. Ecco perchè la Suprema Corte ha riconosciuto l’esimente della “provocazione”, con la conseguente declaratoria di non punibilità. L’annullamento senza rinvio della sentenza di secondo grado ha cassato l’ingiusta decisione di merito e ridato fiducia nelle Istituzioni. La sfera del non appartiene alla giustizia umana, è di competenza del teologo. Il giurista deve umilmente osservare la regola del silenzio e tacere innanzi al “Divino” (!).
Dott. Francesco Iacuaniello
Fonte: Il denaro
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