Per fare scattare la condanna prevista dall’art. 660 c.p. basta il disturbo arrecato dagli squilli. Oltre alle spese processuali, dovrà anche sborsare mille euro alla cassa delle ammende per avere fatto perdere tempo alla giustizia


Le telefonate mute fanno scattare l’arresto. Lo sancisce la Cassazione che ha convalidato la condanna a tre mesi di arresto per molestie continuate nei confronti di un 31enne colpevole di avere tempestato per circa un mese l’ ex fidanzata facendole “più di cento chiamate mute” sul telefonino.
Per la Suprema Corte, non importa se le chiamate erano mute. Per fare scattare la condanna prevista dall’art. 660 c.p. basta il disturbo arrecato dagli squilli. La condanna a tre mesi era già stata inflitta dalla Corte d’Appello di Ancona nel giugno 2009. Inutilmente la difesa del giovane ha tentato il ricorso in Cassazione, sostenendo che il fatto che le chiamate fossero partite dal suo cellulare non dava la prova certa che materialmente fosse stato lui l’autore degli squilli. 
La Prima sezione penale – sentenza 8068 – ha dichiarato inammissibile il ricorso del 31enne e ha evidenziato che “i giudici del merito sono giunti a stabilire la responsabilità operando sull’elemento di prova (che le chiamate fossero state effettuate dal telefono cellulare a lui intestato) una ‘mediazione intellettuale’ secondo cui è massima di esperienza che il telefono intestato ad una persona sia nella sua disponibilità esclusiva, a meno che non vi sia prova del contrario o non siano state allegate specifiche circostanze dalle quali possa inferirsi la ragionevole possibilità di una diversa ricostruzione”.
Alla luce di queste considerazioni, la Suprema Corte rileva come la prova della colpevolezza  “al di là di ogni ragionevole dubbio” non può ritenersi “labile e appare anzi sufficiente ad escludere ricostruzioni alternative”.
Il giovane, oltre alle spese processuali, dovrà anche sborsare mille euro alla cassa delle ammende per avere fatto perdere tempo alla giustizia.


ADN KRONOS

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