(Da ISP notizie n. 3/2006)
La scorsa estate, durante la rapida guerra intrapresa da Israele in Libano, lo scrittore David Grossman ha perso il figlio Uri, sergente dei carristi. Tre giorni dopo, il 15 agosto, Grossman ha pronunciato l’orazione funebre per quel ragazzo di vent’anni ucciso nel suo carroarmato da un missile Hezbollah. E molti di noi hanno letto e si sono commossi e si sono sentiti padri vicini a quel padre, madri vicine a quella madre. Ho letto anch’io, facendomi un po’ forza, perché ognuno di noi, credo, rimuove d’istinto un’idea così orrenda come la morte di un figlio (lo confesso, ho trovato sempre una scusa per non vedere il film di Moretti La stanza del figlio).
Credo che nessuna disgrazia come questa possa colpire violentemente e irreparabilmente un uomo o una donna. Non solo per lo strazio di sé, ma perché quella morte appare come un’aberrazione della natura, che vuole che siano i figli a seppellire i padri e le madri e non viceversa.
Se così non avviene, c’è un sovvertimento che da sempre appare sconvolgere un ordine naturale. Per gli antichi questa distonia del fato era oggetto di rabbia e disperazione. “Oh figlio! Tu se’ morto, ed io vivo?” esclama Ecuba nell’Iliade. La stessa Ecuba che nelle Troadi dovrà assistere alla morte del nipotino Astianatte e che piangerà per bocca di Euripide: “Non tu me seppellisci, ma io (…) seppellisco il tuo misero cadavere, te così giovane”.
Mi ha colpito, nella orazione di Grossman, l’inizio: “Mio caro Uri, sono ormai tre giorni che quasi ogni pensiero comincia con ‘non’. Non verrà, non parleremo, non rideremo”. E poi segue una lunga serie di “non”: “non ci sarà”, “non vedremo” , “non ascolteremo”, “non sentiremo”. Come se si dovesse ripetere più e più volte a se stessi, per convincersi, qualcosa che la ragione comprende e l’animo rifiuta.
Ricordate Nicholas Green, il bambino americano ucciso con un colpo di pistola nella notte fra il 29 e il 30 settembre 1994 sull’autostrada Salerno –Reggio Calabria? Aveva sette anni ed era in auto con il padre, la madre e la sorellina, in Italia per una vacanza. A distanza di cinque anni da quella notte, il padre di quel bimbo, Reginald, scrisse un libro, Il dono di Nicholas, nel quale afferma che mai si dileguerà “la più dolorosa delle consapevolezze”, ossia che a Nicholas “è stata negata per sempre la possibilità di esprimere la sua potenzialità”. E subito dopo, come nel discorso di Grossman, compaiono tanti “non”: “i libri che non leggerà, i tramonti e le amicizie di cui non godrà”, “non terrò più Nicholas per mano mentre impara ad andare in bicicletta”, “Nicholas non conoscerà…”.
Parlai con Reginal Green nel 2000 (volevo inserire un brano del suo libro nell’antologia che stavo scrivendo, Onora il padre e la madre) e ancora sentii il senso atroce di quei “non” nelle sue parole, che pure pronunciava con grande compostezza.
Anche l’orazione di Grossman è stata improntata a una dignitosa compostezza. Non c’è disperazione gridata, non c’è rabbia, non c’è polemica (lui che era stato contrario fin dall’inizio a quella guerra e aveva lanciato un appello perché le operazioni militari cessassero subito): “In questo momento non dico nulla della guerra in cui sei rimasto ucciso. Noi, la nostra famiglia, l’abbiamo già persa”. C’è un dolore acuto e sommesso, la rievocazione di quelle piccole cose che un padre conosce e ricorda: una battuta di Uri, un suo gesto, una riflessione…
Non so, naturalmente, che tipo di rappporto ci fosse tra lo scrittore e il figlio. Ma c’è una frase significativa: “Eri per me figlio e amico”. In un’epoca in cui tanti padri trasformano la loro paternità per farsi amici dei figli (sarà mai possibile trovarsi d’accordo se e quanto questo essere “amici” dei figli possa essere deleterio?) mi sono chiesto come potesse esprimersi l’ “amicizia” di Grossman per Uri. Ma lo spiega lo stesso Grossman, subito dopo: “La nostra anima era legata alla tua. (…) Ogniqualvolta arrivavi in licenza dicevi: vieni papà, parliamo. Di solito andavamo a un ristorante, a sedere e a parlare. Mi raccontavi così tanto, Uri, ed ero orgoglioso di avere l’onore di essere tuo confidente, che uno come te avesse scelto me”. Forse non c’è eco di autorità paterna in queste parole, ma c’è tanto amore tra padre e figlio e tanta comunicazione, quella comunicazione che, al di là delle apparenze, troppe volte manca fra padre e figli.
Dopo che Lili, la figlia diciottenne dello scrittore austriaco Arthur Schnitzler, si era uccisa con un colpo di pistola al cuore, Schnitzler scrisse in una lettera: “… e da questi abissi della disperazione non si risale”. Ma forse lo scrittore israeliano ci riuscirà. Quando, quasi alle tre di notte, gli hanno suonato alla porta e ha visto gli “ufficiali civici” ha pensato: “Ecco, la vita è finita”. Ma poi, alla fine dell’orazione, le parole si invertono: “La nostra vita non è finita. Abbiamo solo subito un colpo durissimo. Troveremo la forza per sopportarlo dentro di noi, nel nostro stare insieme, io, Michal [la moglie, n.d.r.] e i nostri figli e anche il nonno e le nonne, che amavano Uri con tutto il cuore (…) e gli zii e i cugini e tutti i numerosi amici della scuola e dell’esercito che ci seguono con apprensione e affetto”.
Illuminato dalla luce che proiettava il figlio (“di vita, di vigore, di innocenza e di amore”), una luce “tanto intensa che continuerà a illuminarci anche dopo che l’astro che la produceva si è spento”, forse lui ce la farà a non morire dentro, a vivere di nuovo. Mi piace pensare che sia questo l’augurio che ogni padre del mondo, quel giorno di agosto, gli ha rivolto.
Maurizio Quilici
Presidente dell’ Istituto di Studi sulla Paternità (ISP)
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