(Da ISP notizie n. 2/2006)


 


16 febbraio 2006, sentenza n. 61: la Corte Costituzionale sancisce che ai figli legittimi va imposto il cognome del padre, anche se la coppia vorrebbe diversamente. Lo fa pronunciandosi su un caso sollevato dalla Corte di Cassazione nel 2004 e deludendo le aspettative di una coppia la cui richiesta di modificare l’atto di nascita della figlia, imponendo alla bambina il cognome materno al posto di quello paterno, era già stata respinta dal Tribunale e della Corte d’Appello di Milano. Attenzione, però: la Corte afferma di non poter intervenire nel senso auspicato dalla coppia poiché questo costituirebbe “un’operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte”, compiendo la quale si creerebbe “un vuoto di regole” non ipotizzabile. Per un motivo puramente tecnico, dunque, non ideologico. E infatti subito la Corte chiarisce il suo pensiero:  “Non può non rimarcarsi che l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistica, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”. E cita convenzioni internazionali e tre ddl presentati durante l’ultima legislatura a evidente sostegno della convinzione che le cose debbano cambiare.
   29 maggio 2006, sentenza n. 12641: la Cassazione dice “no” alla richiesta di un padre, che aveva riconosciuto tardivamente un figlio avuto nel 1997, di attribuire al figlio il suo cognome al posto di quello materno, confermando la decisione dei giudici di appello i quali avevano sostenuto che il bambino aveva ormai maturato una propria identità nella quale era rilevante quel cognome materno con il quale era conosciuto a scuola e nel quartiere. Essi avevano anche tenuto conto che il padre risultava essere un esponente della criminalità organizzata.
    Anche qui, ripetendo l’atteggiamento della Corte Costituzionale, la Suprema Corte auspica che si tenga conto “della emersione, nel sistema e nel costume sociale, di una tendenza a mettere in discussione la regola dell’attribuzione del patronimico”  e ritiene “indifferibile” un intervento legislativo che adegui, fra l’altro, la disciplina sul cognome “alle mutate esigenze di una famiglia che da tempo non si ispira più al modello patriarcale”. E anche i giudici di Cassazione ricordano la Convenzione di New York del 1979 e l’Unione Europea  che va in questa direzione.
   Di quest’ultima sentenza la stampa ha riportato quasi esclusivamente opinioni favorevoli alla sentenza. Particolarmente soddisfatto Giuliano Pisapia, avvocato e deputato (RC), che dal 1996 presenta in ogni legislatura una proposta di legge perché i figli portino il cognome materno. “Voglio che i figli portino il loro cognome [delle mamme, n.d.r.] perché è con la mamma che si ha un rapporto particolare”, ha commentato in questa occasione.
   In occasione della prima pronuncia L’ISP , con un comunicato a mio nome, non nascose che il problema esisteva, ma si chiese se era giusto che un (eventuale) privilegio lasciasse il posto ad un privilegio di segno opposto. Cancellare il padre perché finora è stata (anagraficamente) cancellata la madre. Sinceramente, mi sembra una logica perversa, oltretutto anacronistica rispetto a un momento storico in cui la società si sforza di equiparare giustamente uomini e donne, padri e madri.  (41 righe)
   E’ probabile che la nuova legislatura si occuperà di questo problema e quindi sarà bene che il nostro Istituto cominci al suo interno un dibattito e una riflessione per poter dare poi il suo contributo, come è avvenuto in altre occasione.
   Evidentemente la soluzione più giusta sarebbe quella di attribuire entrambi i cognomi; ma così il problema si presenta alla generazione successiva. Qualcuno trova semplice lasciare la scelta al figlio al compimento della maggiore età. Semplice, ma anche semplicistico. Perché il cognome è un profondo elemento di identità, di continuità generazionale, che investe aspetti profondi della persona, non sempre coscienti. E chiedere a un ragazzo di scegliere significa forse – come scriveva Massimo Ammaniti (la Repubblica, 14.9.1996) “una responsabilità troppo grande che verrebbe a gravare sulle spalle del figlio”.
   Che il cognome rivesta una pregnanza sulla quale probabilmente non ci si interroga abbastanza quando, in nome di un giusto principio di eguaglianza, si chiede che anche il cognome materno segua la vita del figlio, lo dimostra un tragico episodio avvenuto nel 1995 nel New Jersey, USA. Al termine di una lunga battaglia legale la Corte Suprema aveva dato a Karen Deremer il diritto di decidere se suo figlio, di quattro anni, dovesse portare il cognome paterno o quello materno. E lei, che di quella questione aveva fatto una battaglia femminista, non aveva avuto dubbi, spalleggiata da alcune organizzazioni. Il padre, Allen Gubernat, che mai aveva dato segni di squilibrio, sembrava solo deluso. E’ andato a prendere il figlioletto per il consueto week-end. Lo ha fatto giocare nel giardino di casa, hanno mangiato hamburger e patatine fritte. Poi ha estratto un revolver calibro 357 e ha sparato alla testa al bambino, ha rivolto l’arma contro se stesso e si è ucciso. Non è un episodio che possa servire alla ”causa” dei padri e certo in quel papà americano qualcosa fuori posto – nel cuore e nella mente – doveva esserci. Però il cognome, riflettiamoci bene al momento di trovare la soluzione, non è un semplice fatto anagrafico.
                                                                                                               
Maurizio Quilici
Presidente dell’ Istituto di Studi sulla Paternità (ISP)
Via G. Ansaldo n. 9, 00154 Roma – tel. 06/5139144


 

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