Divorzi e nuove unioni, figli a carico, anziani con badanti Gli spazi si fanno stretti. Ma il mercato edilizio è rimasto immobile


Case-fisarmonica che si allargano e si restringono a comando. Case-palloncino da gonfiare quanto serve. Case-matrioska con le stanze che entrano una dentro l’altra. Sarebbe facile, così, abitare a misura nostra. Sarebbe bello poter allargare e allungare i nostri appartamenti come le mamme sagge facevano con l’orlo dei pantaloni dei bambini: case in crescita, che seguano la taglia dei nostri stili di vita. Ma le nostre case vere sono fatte di cemento e mattoni, roba dura: si chiamano, non per niente, beni immobili. La società invece è mobilissima: cambia la struttura delle famiglie, cambia la mappa catastale delle nostre esigenze. E le nostre case ci stringono, ci tirano, ci vestono male.
C’è una sottile Questione delle abitazioni, in Italia e nel mondo del benessere, che centoquarant’anni fa Engels non avrebbe potuto immaginare. A lui, che voleva prima di tutto dare un tetto decente a ogni famiglia proletaria, obiettivo peraltro ancora non raggiunto, questo problema forse sembrerebbe un lusso. Ma non lo è. Anzi, è precisamente, e di nuovo, un problema dei ceti più deboli. I ricchi abitano sempre in case giuste per loro. Gli altri si accontentano, e si adattano. Ma sempre più a fatica.
Immobile, il mercato immobiliare lo è per cultura. Arretrato, vecchio nella testa. Il suo idolo intoccabile è ancora il trilocale-con-servizi. Pescate uno di quei giornalini nelle rastrelliere e leggete: una litania di “due camere, soggiorno, ingresso”.
Planimetrie ancora infestate da inutili ma costosi corridoi, un po’ di pazienza e troverete perfino qualche superstite tinello, che pure i manuali di architettura per interni davano per estinto da decenni. Si continuano a vendere (perché ci sono) ma quel che è peggio a costruire ex novo appartamenti pensati per la famiglia mononucleare, la famiglia media Istat coppia-più-1,2-figli. Ma quella famiglia non è più la sovrana assoluta del mercato. Nuove, più complicate o scarnificate famiglie cercano casa a loro misura, e non la trovano.
I single in Italia sono 6 milioni: ormai un terzo delle compravendite riguarda appartamenti dove andrà ad abitare una sola persona. Ma i single non stanno sempre soli. Hanno amicizie, amanti, figli di matrimoni precedenti da ospitare nel weekend. La loro casa deve essere piccola ma flessibile, non unifunzionale. Infatti è finito il boom dei monolocali: in sette anni hanno perso il 10% del mercato, e perfino nelle metropoli sono oggetto di meno d’un rogito su dieci. Ma anche all’altro capo della scala qualcosa si muove in modo imprevisto.
Gli italiani fanno meno figli, eppure la richiesta di appartamenti grandi, pure in calo perché ovviamente molto costosi, non crolla, anzi secondo l’ufficio studi di Tecnocasa in certe città (Firenze e Genova) sfiora ancora la metà delle transazioni. Nelle metropoli, rivela l’Istat, una famiglia su sei lamenta di vivere in una casa troppo piccola per le sue esigenze attuali.
Che succede? Che il ciclo di vita delle case è impazzito. Sì, anche le case hanno un’infanzia, una maturità e una vecchiaia.
Nello schema tradizionale: giovane coppia compra trilocale un po’ abbondante, ma tanto poi nascono i figli, lo studio diventa cameretta, ci si stringe, poi i figli si sposano, e la coppia pensionata s’allarga di nuovo. Un movimento regolare di sistole-diastole che gli appartamenti tradizionali riuscivano in qualche modo a sopportare. Oggi però quel ciclo s’è fatto irregolare, imprevedibile, schizofrenico. Figli che restano in casa fino ai trent’anni, nonni longevi, tre generazioni compresenti per qualche anno in una casa “mononucleare” sola. Per un periodo non indifferente l’appartamento di famiglia si riempie come un alveare.
In una cultura abitativa più mobile della nostra, basata sull’affitto come quella americana, la soluzione è il trasloco. In un Paese di tutti-proprietari (72 per cento) come il nostro, cambiar casa significa rogiti, tasse, provvigioni. Eppure una famiglia media lo fa tre volte nella sua vita. La popolarità del piano casa di Berlusconi, nella sua prima e più selvaggia versione, centrava un punto sensibile dell’immaginario domestico: il bisogno di respirare, di allargarsi un po’ restando dove si è scelto di stare. Bisogno popolare, non elitario: nessuno s’è ricordato che il primo comune italiano a liberalizzare le espansioni fu Modena, nel 1989, quando governava una giunta Pci.
E non parliamo di: divorzi e ricomposizioni, figli pendolari (una cameretta da mamma e una da papà), figli precari che tornano a casa per risparmiare, badanti da alloggiare (420 mila in regola, altrettante in nero: 800 mila famiglie nel giro di pochi anni hanno dovuto escogitare una soluzione per ricavare una camera in più in casa). Tra le quattro mura di casa, silenziosamente, è in corso una “odissea nello spazio domestico”, così l’ha definita il Financial Times indagando il mismatch fra edilizia esistente e nuovi bisogni. “La grande novità incompresa dal mercato immobiliare è la convivenza”, spiega Stefano Boeri, architetto, docente, ex direttore di Domus e oggi di Abitare. Colleghi di lavoro che dividono le spese, anziani che si sostengono a vicenda, studenti fuorisede, lavoratori immigrati.
Ma esistono appartamenti-Pacs, per famiglie complicate e anomale? No. Si fa con quel che c’è. Si demoliscono e spostano tramezze, se si può. Altrimenti, spiega l’architetto Mario Cucinella (scuola Renzo Piano, tra i progettisti più attenti ai nuovi bisogni, orgoglioso di essere stato definito “l’assassino del tinello”) “si chiede aiuto all’arredamento”. Pareti divisorie, mobili multiuso, sfruttamento quasi nautico degli spazi. Il successo dell’Ikea non è solo frutto di prezzi bassi, ma dell’intuizione di un concetto di mobilio a durata limitata, succedaneo flessibile della rigidità dei muri, da sostituire senza rimpianti quando cambiano gli inquilini. “È sorprendente che il mercato edilizio non abbia ancora intercettato questi bisogni”.
Non è poi così sorprendente. L’edilizia residenziale è da tempo una catena di montaggio di prodotti uniformi, un’architettura senza architetti che ripete all’infinito moduli geometrili standard. Per trovare riflessioni consistenti sulla casa familiare bisogna risalire a Le Corbusier. Ma la sua “macchina per abitare” razionalista e tecnologica oggi non basta più. Le speranze vengono da una nuova scienza, l’housing, a cavallo tra architettura, arredamento, sociologia e psicologia.
La casa del futuro nasce da inchieste sofisticate sulle insoddisfazioni del presente, come quella condotta da quattro anni da Makno Consulting. Quest’anno contiene una sorpresa: la cucina ha scavalcato il soggiorno come locale più amato dagli italiani. È lì che la famiglia si riunisce più spesso, ormai: non davanti alla tivù, che conserva la sua centralità sull’altare del salotto solo nelle case dei nonni. Ma dire “cucina” ormai è improprio: è il cuore, il fulcro, il foyer dell’abitazione.
Manca anche un lessico per la nuova toponomastica domestica. Si dovrebbe parlare di spazio relazionale centrato sulla socialità del cibo, che assorbe le funzioni di relax del vecchio salotto e di rappresentanza del vecchio ingresso. Anche l’espressione “zona notte”, con buona pace dei dépliant di vendita, non ha più significato: in “camera da letto” (ormai è la camera dove c’è anche il letto) si svolgono una gran quantità di attività diurne, lo studio, la lettura, il tele-lavoro, la “connessione” (il computer collegato a Internet, quando non è nomade sulle onde del wireless, sta lì). È il fenomeno della “monolocalizzazione” (un appartamento in una sola stanza) che i nostri figli adolescenti hanno capito e praticato ben prima di noi.
Trasferito agli adulti, è una rivoluzione: fine della zona sacra e vietata agli estranei, fine dei pudori da boudoir, tutte le stanze sono accessibili all’ospite e all’amico: secondo un’indagine del Politecnico di Milano, il 60% degli intervistati considera casa propria “un luogo aperto”. Del resto, basta una videochiamata con Skype per trasformare una cameretta in un set televisivo. Persino il bagno, sancta sanctorum della privacy, sta diventando un luogo da esibire, anzi forse è la stanza più innovativa dell’appartamento: più centro benessere e sala fitness che “ritirata”, confine sempre più labile verso la camera da letto, a costituire una nuova “camera della cura di sé”.
E quando cambiano i bisogni, gli inquilini, le età? La casa dovrebbe cambiare con loro. Cioè dovrebbe essere capace di farlo. Ma ci vorrebbe una rivoluzione di marketing: vendere nuove case che Boeri chiama “a geometria variabile”, con spazi non limitati da divisorie e non predefiniti per destinazione. Vendere solo l’hardware abitativo di base, muri perimetrali e allacciamenti impiantistici, abbastanza flessibili da poter essere riorganizzati più volte nel corso degli anni: pareti mobili, impianti elettrici e idraulici diffusi (il problema delle prese, sempre nel posto sbagliato, nella casa elettronica genera un dramma di multiple, ciabatte, matasse di prolunghe, desolanti canaline di plastica). Appartamenti come loft, o come case giapponesi a zone modulari non dovrebbero essere più uno sfizio da ricchi, ma uno standard da nuove case popolari.
Qua e là esperimenti coraggiosi dimostrano che nuove idee di casa con confini più permeabili sono fattibili, hanno nomi ancora oscuri: co-housing, condomini solidali, portierato sociale. Ma anche le case standard dovrebbero cambiare aspetto. Spazi elastici, se non nella metratura, nella cubatura: stanze di diversa altezza, soppalcabili quando necessario, in modo da distribuire le funzioni a più livelli come libri su uno scaffale: ma certo, finché dominano gli opprimenti due metri e 70 delle case d’oggi, c’è poco da allargarsi. La società forse è troppo liquida. Ma la casa è sicuramente troppo solida.


LA REPUBBLICA

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