Chi ha detto che governare la casa e accudire i figli non sono attività quantificabili in denaro? Sicuramente non il giudice del divorzio: se i ragazzi non risultano ancora autosufficienti economicamente, gli ex coniugi devono contribuire a mantenerli ciascuno secondo le proprie possibilità e nella ripartizione degli obblighi “pesa” l’apporto casalingo della madre in favore dei figli, compresa l’ipotesi in cui la donna è impegnata anche nel mondo del lavoro. Lo ricorda la Cassazione con la sentenza 11903/09.
E’ stata bocciata la tesi del padre divorziato, condannato a pagare l’assegno di mantenimento nei confronti di due figli che vivono ancora con la madre, occupata come infermiera. Nel ricorso si sostiene che l’attività domestica comunque prestata dalla donna in favore dei ragazzi, insieme al fatto di tenerli in casa con sé, non costituisce per la signora un motivo di esonero dai suoi obblighi. Il che può essere vero, ma non significa certo che nella ripartizione degli obblighi di mantenimento non vada considerata l’attività della donna che accudisce la prole e manda avanti la casa. Sono gli articoli 148 e 155 del codice civile a disciplinare le modalità con cui i genitori devono assolvere l’obbligo di mantenere, educare e istruire i figli: nelle norme non c’è traccia di limitazioni, dunque è escluso che l’adempimento debba avvenire per forza attraverso un contributo in denaro. Un genitore, insomma, compie il suo dovere anche attraverso l’apporto casalingo. Nè giova giocare la carta “anti-bamboccioni” sostenendo che con i contributi di papà e mammà i ragazzi avrebbero troppi soldi a disposizione (Cassazione 11538/09).
Quanto all’assegno divorzile, la Corte ribadisce che il parametro di valutazione è sempre il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio: contano le condizioni economiche degli ex coniugi, oltre che la situazione abitativa, e fa fede la documentazione fiscale dell’onerato.


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