Gli atti vessatori e le molestie sessuali sul luogo di lavoro hanno anche una rilevanza penale – (Cassazione 27469/2008)
Il mobbing sul luogo di lavoro può sfociare nei casi più gravi nel reato di maltrattamenti. Lo ha stabilito la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione confermando una sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta che aveva condannato un datore di lavoro per il reato di violenza sessuale e maltrattamenti per aver compiuto atti vessatori e molestie sessuali a danno di una dipendente. La Cassazione ha annullato con rinvio la parte della sentenza che disponeva la condanna per violenza sessuale, ritenendo sussistenti gli estremi del semplice tentativo di violenza, non essendo il reato stato consumato. Il datore di lavoro imputato aveva in più di una occasione molestato sessualmente la dipendente, toccandole la gamba, facendo continue allusioni sessuali e costringendola a vedere una videocassetta porno; aveva inoltre vessato la donna con continui rimproveri e minacce di non regolarizzare il rapporto di lavoro se non avesse ceduto alle sue avances. La Suprema Corte, in proposito, ha affermato che l’articolo 572 del vigente codice penale ha ampliato la categoria delle persone che possono essere vittima di maltrattamenti, aggiungendo nella previsione normativa “ogni persona sottoposta all’autorità dell’agente, ovvero al medesimo affidata per ragioni d’istruzione, educazione, ecc.”, chiarendo che “sussiste il rapporto d’autorità ogni qualvolta una persona dipenda da altra mediante un vincolo di soggezione particolare (ricovero, carcerazione, rapporto di lavoro subordinato, ecc)”, come nel caso dell’imprenditore nei confronti dei dipendenti: in tali casi “gli atti vessatori, che possono essere costituiti anche da molestie o abusi sessuali, nell’ambiente di lavoro, oltre al cosiddetto fenomeno del mobbing, risarcibile in sede civile, nei casi più gravi, possono configurare anche il delitto di maltrattamenti”
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