Il lavoro della Commissione Danno del Centro per la riforma del diritto di famiglia è stato diretto ad acquisire dati ed informazioni in merito alle seguenti questioni:
A) L’applicabilità dei rimedi risarcitori ordinari in ambito familiare e specificatamente nel rapporto tra i coniugi:
    a1) l’evoluzione della figura di danno non patrimoniale: il danno biologico, il danno morale soggettivo, il danno esistenziale;
    a2) la casistica.
B) La possibilità di proporre la domanda di risarcimento contestualmente alla domanda di separazione e di divorzio.
C) Le lacune del sistema e possibili interventi correttivi – le proposte della commissione.


A) L’APPLICABILITA’ DEI RIMEDI RISARCITORI ORDINARI IN AMBITO FAMILIARE E SPECIFICATAMENTE NEL RAPPORTO TRA I CONIUGI.
Grazie ai numerosi interventi, di questi ultimi dieci anni, soprattutto da parte della giurisprudenza di merito (così come successivamente recepita anche dalla giurisprudenza di legittimità) , l’applicabilità della tutela risarcitoria anche nell’ambito dei rapporti familiari può dirsi oramai pressochè pacifica.
Come noto, infatti, l’ostacolo all’estensione della tutela aquiliana in ambito familiare veniva precedentemente ravvisato nella specialità di tali rapporti per i quali si pensava esistessero rimedi specifici ed esclusivi (quali ad esempio nel rapporto tra coniugi l’addebito o il giudizio di nullità/annullabilità ex art 129, 129 bis etc e per i figli i rimedi della sospensione e/o decadenza dalla potestà del genitore autore della condotta pregiudizievole di cui agli artt. 330 e ss.) che potevano escludere in radice la possibilità di un’estensione della tutela risarcitoria, applicabile in tutti gli altri contesti dell’agire sociale, alle lesioni perpetuate in ambito familiare.
La graduale presa di coscienza dell’inidoneità di tali rimedi a prestare tutela alle lesioni subite dagli individui nel proprio contesto familiare, unitamente alla progressiva e contestuale valorizzazione dell’individuo stesso hanno reso necessaria oltre che inevitabile l’estensione dei rimedi risarcitori ordinari anche alle lesioni perpetuate all’interno della famiglia intesa quale formazione sociale nella quale ogni suo componente ha il fondamentale diritto di realizzarsi come persona (art. 2 cost).
Ciò è stato possibile anche grazie al graduale e contestuale ampliamento della figura del danno non patrimoniale risarcibile ai sensi del combinato disposto degli artt. 2043 e 2059 c.c. e più in generale dell’area del c.d. danno ingiusto.
a1) L’evoluzione della figura di danno non patrimoniale: il danno biologico, il danno morale soggettivo, il danno esistenziale.
A seguito dell’intervento della nostra Suprema Corte con le pronunce del 2003 la fonte del danno non patrimoniale largamente inteso è stata individuata nella norma di cui all’art. 2059 c.c.. In particolare, è stato chiarito che, il limite della riserva di legge contenuta nell’art. 2059 non opera in presenza di lesioni di valori della persona costituzionalmente garantiti.
Il mutamento nell’orientamento della giurisprudenza in tema di danno è stato possibile, come detto, grazie alle pronunce della Cass. 31 maggio 2003 n. 8827 e n. 8828 nonchè nella pronuncia della C. Cost. 11 luglio 2003 n. 233 con cui è stato abbandonato il sistema risarcitorio c.d. tripartito (danno patrimoniale, danno biologico e danno non patrimoniale inteso quale danno morale soggettivo ex art. 2059) per riaffermare il sistema c.d. bipolare, suddiviso nelle due categorie generali del danno patrimoniale (ex artt. 2043 e ex art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. Tale svolta è stata determinata dalla nuova lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. delineata dalle suddette sentenze, che hanno affermato il principio secondo cui il diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, ammesso “nei casi determinati dalla legge”, non sorge solo nelle ipotesi di reato ex art. 185 c.p., ma deriva da qualsiasi lesione ad interessi costituzionalmente protetti inerenti alla persona, e non si riduce al solo danno morale soggettivo, ma ricomprende ogni perdita non suscettibile di valutazione economica.
E’ in tal modo venuto meno il precedente sistema tripartito del risarcimento del danno, che era stato elaborato proprio per ovviare alle conseguenza negative derivanti dall’interpretazione restrittiva della stessa norma. Ad evitare, infatti, che rilevanti danni, come quelli riguardanti l’integrità psico-fisica della persona ex art. 32 Cost., venissero risarciti solo nelle ipotesi di reato ex art. 185 c.p., la giurisprudenza (C. Cost. n. 184/1986) aveva elaborato la categoria del danno biologico come sorta di tertium genus, che veniva affiancato al danno patrimoniale ed al danno non patrimoniale (inteso quale danno morale soggettivo) e che trovava il suo fondamento normativo negli artt. 32 Cost. e 2043 c.c. A tal fine, la giurisprudenza aveva elaborato il concetto, del c.d. danno-evento, diverso dal danno-conseguenza, che si riteneva dovesse essere risarcito in sè e per sè, come danno in re ipsa, generato per il fatto stesso del verificarsi dell’evento lesivo.
Ora, invece, alla luce delle recenti pronunce sopra citate, abbandonato il concetto del danno-evento, il danno biologico viene considerato a tutti gli effetti come voce del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., accanto al danno morale soggettivo ed alle altre voci di danno derivanti da lesioni di interessi costituzionalmente garantiti inerenti alla persona.


IL DANNO BIOLOGICO
Il danno biologico, alla luce del nuovo orientamento giurisprudenziale, deve essere qualificato come voce di danno non patrimoniale da risarcire ai sensi dell’art. 2059 c.c., in base a criteri di liquidazione equitativi. Esso rappresenta la lesione all’integrità psico-fisica del soggetto che è rimasto vittima di un atto illecito altrui, e trova il suo fondamento normativo, come visto, nell’art. 32 Cost., che tutela il diritto alla salute di ciascun individuo.
E secondo la definizione uniformemente accolta dalla giurisprudenza, il danno alla salute non assume rilevanza solo con riferimento alla sfera produttiva, ma attiene anche alla sfera spirituale, culturale, affettiva, sociale e sportiva, ossia ad ogni ambito entro il quale si svolge la personalità dell’individuo.
Tale definizione è peraltro stata accolta anche dal legislatore che all’art. 5 della legge n. 57/2001 recante “Disposizioni in materia di apertura e regolamentazione dei mercati” precisa che “per danno biologico si intende la lesione all’integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale. Il danno biologico è risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del danneggiato”.
Quanto alla prova da fornire la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che occorra distinguere tra il danno inteso quale riduzione della capacità lavorativa generica che è conseguente alla lesione dell’integrità psicofisica e che ricomprende tutti gli effetti negativi della lesione del bene salute in sè e per sè considerato (che è in re ipsa per il semplice fatto della lesione) dalla riduzione della capacità lavorativa specifica intesa quale riduzione della capacità di guadagno effettivo che deve essere provata dal soggetto che vi abbia interesse.


IL DANNO MORALE SOGGETTIVO
Tale voce di danno viene tradizionalmente definita come pretium doloris, sofferenza contingente, turbamento dell’animo transeunte determinato dal fatto illecito altrui.
L’importante innovazione apportata dalle recenti pronunce giurisprudenziali (Cass. 31 maggio 2003 n. 8827 e n. 8828, C. Cost. 11 luglio 2003 n. 233), a proposito del danno morale soggettivo, consiste nell’aver svincolato anche tale voce di danno non patrimoniale dall’interpretazione restrittiva, che riconduceva l’applicazione dell’art. 2059 c.c. alle sole ipotesi di reato ex art. 185 c.p. Ora, grazie al nuovo orientamento giurisprudenziale, il danno morale soggettivo, inteso come patema d’animo, deve essere risarcito tutte le volte in cui si verifichi la lesione di un interesse costituzionalmente protetto inerente alla persona e venga, quindi, invocato l’art. 2059 c.c., anche se il fatto illecito, che ha cagionato tale lesione, non sia configurabile come reato.
E’ pacifico che, come visto sopra, anche per la liquidazione di tale voce del danno non patrimoniale, si debba fare riferimento a criteri equitativi.


IL DANNO ESISTENZIALE
All’interno della macro categoria del danno non patrimoniale, è stato infine rinvenuto oltre al danno morale soggettivo e a quello biologico, anche il danno “spesso definito in giurisprudenza come esistenziale” , derivante dalla lesione di interessi di rango costituzionale e che abbiamo detto costituire il terzo pilastro. E recentemente una pronuncia delle Sez. Unite ha chiarito che il danno esistenziale consiste in \”ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno\”.
Le Sezioni Unite hanno altresì sottolineato che il \”danno esistenziale\” non consiste in meri \”dolori e sofferenze\”, ma deve aver determinato \”concreti cambiamenti, in senso peggiorativo, nella qualità della vita\”.
Ne emerge dunque una figura di danno alla salute in senso lato che, pur dovendo – diversamente dal danno morale soggettivo – obiettivarsi, a differenza del danno biologico, rimane integrato a prescindere dalla relativa accertabilità in sede medico-legale.
Tale danno, indipendentemente dal problema relativo alla sua qualificazione, dovrà essere allegato e provato sia nell’an sia nel quantum debeatur, quindi bisognerà dimostrare la sussistenza degli elementi soggettivi (dolo o colpa) ed oggettivi (nesso causale) nei quali si articola l’illecito civile ex art. 2043 c.c. potendo al riguardo fondarsi la prova anche su semplici presunzioni.
In particolare, e quanto alla prova da fornire per tale voce di danno le Sezioni Unite sono intervenute, con la pronuncia sopra citata, al fine di risolvere il contrasto esistente in giurisprudenza, definitivamente chiarendo che tale danno: “si fonda sulla natura non meramente emotiva ed ulteriore (propria del ed danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso (…)” e “Non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare – al quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico legali applicabili in relazione alla lesione dell’indennità psicofisica – necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire (…) All’onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l’ordinamento processuale pone a disposizione” (incluse dunque le presunzioni) .
a2) La casistica – Il risarcimento del danno nei rapporti tra coniugi
Come abbiamo visto, oggi, grazie ai numerosi interventi da parte della nostra giurisprudenza di legittimità e di merito, l’applicabilità del rimedio risarcitorio in ipotesi di lesioni perpetuate da un coniuge in danno dell’altro può dirsi pressochè pacifica.
Ed invero, la netta barriera che separava i due ambiti normativi, così da determinare la non interferenza in caso di violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio, fatta eccezione per il caso della commissione di specifici fatti di reato, è stata superata dalla giurisprudenza tanto di merito quanto di legittimità.
Va, però, subito posto in evidenza che la semplice violazione dei doveri nascenti dal matrimonio si ritiene non possa dare luogo in maniera automatica ad una condanna al risarcimento dei danni, anche se ne costituisce il naturale presupposto.
E così se l’addebito non comporta automaticamente il risarcimento del danno subito il mancato addebito non esclude a priori la possibilità di una tutela risarcitoria.
Se è vero infatti che i doveri nascenti dal matrimonio hanno un vero e proprio valore giuridico e non solo morale di tal che può affermarsi che dalla loro violazione discenda l’interesse (meritevole di tutela) della persona lesa a vedersi risarcito il danno è anche vero che non può definirsi di per sè illecita, e quindi fonte di responsabilità anche risarcitoria qualunque violazione dei doveri nascenti dal matrimonio che pure legittimi l’addebitabilità della separazione.
I presupposti dei due rimedi sono infatti affatto diversi dovendosi accertare per l’addebito che il comportamento tenuto da un coniuge in violazione dei doveri coniugali sia stato la causa dell’intollerabilità della convivenza mediante un confronto con la condotta tenuta dall’altro coniuge al fine di verificare se il comportamento censurato non sia solo l’effetto di una frattura coniugale già verificatasi. Mentre ai fini dell’individuazione della responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c. a carico del coniuge inadempiente ai doveri coniugali, il giudice deve accertare, anzitutto, la obiettiva gravità della condotta assunta dall’agente in violazione di uno o più dei doveri nascenti dal matrimonio, pur nel contesto di una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i coniugi nel contesto familiare, ed in secondo luogo verificare con speciale rigore la sussistenza di un danno oggettivo conseguente a carico dell’altro coniuge e la sua riconducibilità in sede eziologica non già alla crisi coniugale in quanto tale, per sè di norma produttiva di uno stato di sofferenza psico-emotiva, affettiva e relazionale, oltre che talora di disagio economico e comportamentale a carico di almeno una delle parti, ma alla condotta trasgressiva, e perciò lesiva, dell’agente, proprio in quanto posta in essere in aperta e grave violazione di uno o più dei doveri coniugali.
In altri termini, come detto, non ogni violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio può essere fonte di un danno risarcibile in via aquiliana, nè il mero addebito della separazione, ossia la consapevole violazione di tali obblighi causalmente ricollegabile al fallimento dell’unione può essere sanzionata ex art. 2043 c.c..
“Diversamente opinando si rischierebbe di fare opera di banalizzazione dell’istituto, trasformandolo in uno strumento indiretto di coazione rispetto al rapporto di coppia, tradendo il senso della vigente disciplina in materia di separazione basato sull’oggettiva rilevazione di una situazione ostativa alla prosecuzione della convivenza o di pregiudizio alla prole dal suo protrarsi. Non senza considerare che, in assenza di una regolazione delle unioni di fatto, un eccessivo ricorso allo strumento della responsabilità civile finirebbe per sortire un esito di deterrenza tale da dissuadere dal ricorso all’istituto del matrimonio con esiti controinduttivi sul piano della tutela dei soggetti deboli”. “La risarcibilità dei danni ulteriori è configurabile se mai solo se i fatti che hanno dato luogo all’addebito integrano gli estremi dell’illecito ipotizzato dalla clausola generale di responsabilità espressa dalla norma citata” ovvero, come detto, in quanto risultino provati: oltre all’obiettiva gravità della condotta posta in essere dall’agente il danno ingiusto e la sua riconducibilità in sede eziologia alla condotta dell’agente.


B) LA POSSIBILITA’ DI PROPORRE LA DOMANDA DI RISARCIMENTO CONTESTUALMENTE ALLA DOMANDA DI SEPARAZIONE E DI DIVORZIO .
L’ulteriore problema al quale invece non è stata data sicura e univoca risposta è di ordine processuale. Ci si chiede infatti se, in ipotesi di condotta lesiva di un coniuge che in violazione di doveri nascenti dal matrimonio abbia cagionato un danno ingiusto all’altro coniuge, sia possibile avanzare la relativa domanda risarcitoria nel giudizio di separazione o di divorzio o se invece la si debba proporre separatamente.
Sul punto non è ancora stata fatta chiarezza posto che alcuni Tribunali (Trib. Monza 4 luglio 2004, Trib. Milano 7 marzo 2002) hanno ammesso la contestuale proponibilità di entrambe le domande mentre altri (Trib. Milano 10 febbraio 1999, Trib. Venezia 3 luglio 2006) hanno di fatto escluso questa possibilità, stante l’assenza del presupposto della connessione e tenuto conto della diversità dei riti.
In particolare la Corte di Cassazione “con riferimento alle domande di scioglimento della comunione, della restituzione di beni mobili e pagamento somme” ha escluso la proponibilità di tali domande nel giudizio di divorzio in quanto “le rispettive causae petendi sono del tutto diverse, autonome e distinte, mentre l’oggetto ne è completamente diverso”. In particolare, è stato chiarito che l’art. 40 c.p.c. al “terzo comma disciplina la trattazione congiunta delle cause soggette a rito ordinario e speciale nei soli casi previsti dagli artt. 31 (cause accessorie), 32 (cause di garanzia), 34 (accertamenti incidentali), 35 (eccezioni di compensazione) e 36 (cause riconvenzionali), disponendo che esse, cumulativamente proposte o successivamente riunite, siano trattate con il rito ordinario, salva l’applicazione di quello speciale quando una di esse sia una controversia di lavoro o previdenziale, e così chiaramente escludendo la possibilità di proporre più domande connesse soggettivamente ai sensi dell’art. 33 o dell’art. 103 c.p.c. e soggette a riti diversi. E poichè nel caso di specie fra la domanda di scioglimento del matrimonio e quelle conseguenziali alla pronuncia sullo status e le altre domande di natura economica proposte dalle parti non è configurabile un rapporto riconducibile alle previsioni innanzi richiamate (chiaramente escludendosi, in particolare, la dipendenza delle domande riconvenzionali avanzate \”dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come mezzo di eccezione \” richiesta dall’ art. 36 c.p.c.), correttamente la Corte di Appello ha escluso la possibilità del simultaneus processus”.
Con riferimento alla tale ultimo punto peraltro la Corte di Cassazione in una pronuncia più risalente ha avuto modo di affermare che la domanda riconvenzionale laddove non determini lo spostamento della competenza può essere proposta anche al di fuori dell’ipotesi di cui all’art. 36 c.p.c. ove sia ravvisabile (secondo un giudizio assolutamente discrezionale e insindacabile del giudice di merito) un collegamento obiettivo tra la domanda principale e la domanda riconvenzionale tale da rendere opportuna la trattazione congiunta e simultanea della cause.
Al di fuori di tale ipotesi, che rimane indissolubilmente legata, come visto, a una valutazione del tutto discrezionale del singolo Giudice avente ad oggetto l’opportunità (non sindacabile in sede di legittimità) della trattazione congiunta, la contestuale trattazione di cause non connesse se non soggettivamente e con riti di diversi rimane esclusa.
In particolare e quanto a quella particolare ragione di connessione di cui all’art. 31 c.p.c. (l’accessorietà) sembra certo che tale ragione di connessione non possa essere ravvisata tra una domanda di separazione o di divorzio del matrimonio e la domanda di risarcimento in quanto manca quel vincolo di subordinazione o di consequenzialità logica-giuridica in forza del quale una delle due domande trovi il suo titolo o la sua ragione giustificatrice nella pretesa oggetto dell’altra.
Mentre come è stato giustamente rilevato “La questione potrebbe invece porsi con riferimento alla domanda di separazione con addebito e alcune pretese risarcitorie fondate sulla violazione dei doveri di cui all’art. 143 c.c., dal momento che il rigetto della domanda di addebito può comportare in taluni casi la reiezione dell’altra domanda (anche se come visto l’una non implica l’altra e viceversa) (…) Tuttavia, se si riconoscesse l’ammissibilità del simultaneus processus, occorrerebbe concludere anche per l’applicabilità del rito ordinario al giudizio di separazione: il che appare, tuttavia, conclusione assolutamente impraticabile” .
In conclusione sebbene talune sentenze di merito non affrontando nello specifico il problema della connessione abbiano trattato congiuntamente le domande di risarcimento e di separazione e di divorzio proposte (utilizzando il rito speciale di tali giudizi), ragioni di ordine processuale sembrerebbero dover escludere tale possibilità con la conseguente necessità di introdurre due giudizi autonomi, e ciò in evidente contrasto peraltro con il principio di economica processuale che ha improntato le ultime riforme del nostro codice di rito.
Fonte: Il Danaro

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