Il documento si propone di avviare un dibattito
Il futuro del Welfare in Italia, questo il Libro verde prodotto dal ministero del Lavoro, Salute e politiche sociali, presentato il 25 luglio dal ministro Maurizio Sacconi per avviare un dibattito pubblico sul futuro del sistema del welfare in Italia. Il testo propone una visione del futuro del nostro modello sociale “nella prospettiva della vita buona nella società attiva”, un modello, cioè, capace di concorrere alla costruzione della coesione sociale, fondamentale obiettivo della nostra società, così come è stato individuato dall’Unione Europea con la cosiddetta Strategia di Lisbona. Il confronto che intende sollecitare riguarda in particolarevle disfunzioni, gli sprechi ed i costi del modello attuale di welfare; la capacità di transitare verso un nuovo modello sociale che consideri prioritario accompagnare le persone lungo tutto l’arco della vita senza perdere di vista il binomio opportunità – responsabilità; un modello di governance che garantisca la sostenibilità finanziaria; perseguire gli obiettivi strategici per realizzare concretamente un nuovo modello, anche attraverso il costante e proficuo confronto con le migliori esperienze internazionali; la formulazioni di linee guida sui pilastri su cui si basa il sistema con programmi specifici dedicati alla natalità, alla famiglia, alla formazione legata all’occupazione (occupabilità) e alla prevenzione per la salute.
Per contribuire al dibattito sarà aperta una consultazione pubblica per un periodo di tre mesi, fino al 25 ottobre, attraverso la casella di posta elettronica libroverde@lavoro.gov.it.
Ministero del Lavoro, Salute e politiche sociali – Libro Verde sul futuro del modello sociale – Documento per la consultazione pubblica – 25 luglio 2008
Prefazione
Questo Libro Verde è dedicato ai giovani e alle loro famiglie perché vuole concorrere a ricostruire fiducia nel futuro. Con esso si vuole avviare un dibattito pubblico sul futuro del sistema di Welfare in Italia nella speranza di pervenire a soluzioni quanto più condivise dagli attori istituzionali, politici e sociali concorrendo in tal modo alla stessa coesione nazionale. Le tendenze demografiche, i grandi cambiamenti nella coscienza dei bisogni e nella struttura delle risposte, la globalizzazione sregolata e una crescita della economia che rimane al di sotto del potenziale stanno progressivamente sgretolando la rete delle vecchie sicurezze. Assistiamo, a volte impotenti, ad un radicale cambiamento della economia e della società che si riflette, in negativo, sulla vita delle persone, sui loro bisogni, sulle loro paure e sui loro comportamenti. La organizzazione delle funzioni di indirizzo politico in materia di lavoro, salute e inclusione in un unico Ministero dedicato allo sviluppo sociale può e deve costituire l’occasione per una visione integrata dei vari profili che concorrono al bene-essere dei cittadini. E’ stato il recente Libro Bianco della Commissione Europea sulla salute a enfatizzare lo stretto legame tra salute e prosperità economica sottolineando, altresì, la centralità del beneessere dei cittadini nelle politiche contemplate dalla Strategia di Lisbona per la crescita e la occupazione. Promuovere la salute consente di ridurre la povertà, l’emarginazione e il disagio sociale, incrementando la produttività del lavoro, i tassi di occupazione, la crescita complessiva della economia. Allo stesso modo un aumento della qualità della occupazione e delle occasioni di lavoro per un arco di vita più lungo si traduce in maggiore salute, prosperità e bene-essere per tutti. Una rifondazione del nostro modello sociale sarà più agevole e potrà consentire al tempo stesso soluzioni più avanzate e durature se una omogenea direzione politica si dimostrerà in grado di definire il complesso delle tutele e delle opportunità delle persone lungo l’intero ciclo di vita – dal concepimento alla morte naturale – offrendo risposte unitarie e non settoriali o, peggio, segmentate in corrispondenza dei diversi bisogni nel momento in cui si manifestano. La sfida a cui siamo chiamati non è solamente economica ma, prima di tutto, progettuale e culturale. Vogliamo riproporre la centralità della persona, in sé e nelle sue proiezioni relazionali a partire dalla famiglia. Pensiamo a un Welfare delle opportunità che si rivolge alla persona nella sua integralità, capace di rafforzarne la continua autosufficienza perché interviene in anticipo con una offerta personalizzata e differenziata, stimolando comportamenti e stili di vita responsabili, condotte utili a sé e agli altri. Un Welfare così definito si realizza non solo attraverso le funzioni pubbliche ma soprattutto riconoscendo, in sussidiarietà, il valore della famiglia, di tutti i corpi intermedi e delle funzioni professionali che concorrono a fare comunità. Esso potrà offrire migliori prospettive soprattutto a giovani e donne, oggi penalizzati da una società bloccata e incapace di valorizzare tutto il proprio capitale umano. Il principio di una vita buona, peraltro, ha le sue radici in una vita attiva, nella quale il lavoro non sia una maledizione o, peggio, una attesa delusa, ma costituisca fin da subito nel ciclo di vita, la base dell’autonomia sociale delle persone e delle famiglie. Invece di ritardare all’infinito l’esperienza del lavoro, esso va considerato parte integrante dei processi formativi attraverso adeguati strumenti normativi che consentano di integrare positivamente esperienze di studio e di lavoro. L’obiettivo di garantire a tutte le persone e ai giovani in particolare la possibilità di esprimere interamente il loro potenziale, ma anche di aiutare chi non è in condizioni di farlo, non può che fondarsi su valori chiari e il più possibile condivisi. Valori che orienteranno l’azione di indirizzo politico quanto più saranno declinati attraverso precise strategie in grado di alimentare, anche attraverso un costante monitoraggio della loro efficacia, un clima di fiducia e di responsabilizzare tutti gli attori interessati.
Il presente Libro Verde propone quindi una visione del futuro del nostro modello sociale nella prospettiva della vita buona nella società attiva ed intende sollecitare un diffuso confronto su:
• le disfunzioni, gli sprechi e i costi del modello attuale;
• la principale sfida politica e cioè la transizione verso un nuovo modello che accompagni le persone lungo l’intero ciclo di vita attraverso il binomio opportunità – responsabilità;
• un modello di governance che garantisca la sostenibilità finanziaria e attribuisca a un rinnovato e autorevole livello centrale di governo compiti di regia e indirizzo, affidando, invece, alle istituzioni locali e ai corpi intermedi, secondo i principi di sussidiarietà, responsabilità e differenziazione, l’erogazione dei servizi in funzione di standard qualitativi e livelli essenziali delle prestazioni;
• gli obiettivi strategici dei prossimi anni per giungere – attraverso un costante esercizio di benchmarking con le migliori esperienze internazionali e in coerenza con le linee guida comunitarie – a un sistema di protezione sociale universale, selettivo e personalizzato che misuri su giovani, donne e disabili, in termini di vera parità di opportunità, l’efficacia delle politiche;
• le possibili linee guida sui pilastri del sistema e una ipotesi di grandi programmi (quali natalità; famiglia; formazione e occupabilità; prevenzione per la salute). Una consultazione pubblica sarà aperta sulle questioni sollevate dal Libro Verde per un periodo di tre mesi. Al termine di questa consultazione, le principali opzioni politiche identificate nelle risposte delle istituzioni centrali, delle Regioni e degli enti locali, delle parti sociali, delle associazioni professionali e di volontariato, dei centri di ricerca e di tutti gli altri soggetti – inclusi i singoli cittadini che vorranno fornire un loro contributo -saranno condotte a sintesi in un Libro Bianco sul futuro del modello sociale. Il Governo, in coerenza con esso, formulerà le proposte in materia di lavoro, salute e politiche sociali per l’intera legislatura.
1. Perché un Libro Verde?
a) Le disfunzioni Le disfunzioni, gli sprechi e i costi dell’attuale modello, così come il quadro difficile delle compatibilità macro-economiche attuali e soprattutto prospettiche, sono noti e ampiamente documentati. In questa sede è sufficiente ricordare che la nostra spesa sociale si colloca leggermente al di sopra della media dei Paesi OCSE e che la sua composizione è manifestamente squilibrata in favore della spesa pensionistica, che costituisce oltre il 60 per cento della spesa sociale al netto della istruzione. Come è noto, infatti, in Italia la componente più rilevante della spesa complessiva per prestazioni di protezione sociale è rappresentata dal capitolo della previdenza con il 66,7 per cento. La sanità rappresenta circa il 24 per cento, seguita dall’assistenza (8,1 per cento). La spesa per la salute è dunque oggettivamente penalizzata dal peso eccessivo della spesa pensionistica. In termini di incidenza sul PIL la spesa pubblica sanitaria in Italia assorbe il 6,8 per cento (1,5 per cento del PIL quella privata): un dato inferiore alla Germania (8,6 per cento), alla Francia (7,4 per cento), alla Svezia (7,9 per cento) e alla media europea (7 per cento). La spesa sanitaria desta preoccupazione non solo per il presente, ma soprattutto per le tendenze che sono state variamente analizzate e considerate. Ciò che allarma è la sua dinamica, spinta da una crescente domanda qualitativa e quantitativa. Nel periodo 1996-2005 la spesa in euro correnti è cresciuta del 6,9 per cento annuo, a fronte di un incremento tasso di crescita del PIL inferiore della metà. Ancora di più preoccupa la tendenza di medio e lungo termine. Vari osservatori ipotizzano che al 2050, in assenza di politiche correttive e di riequilibrio, la spesa sanitaria possa più che raddoppiare. L’invecchiamento e la bassa natalità determinano un cambiamento nelle priorità del sistema sanitario, in virtù di dati epidemiologici che evidenziano come primarie le aree delle malattie cardiovascolari (prima causa di morte), dei tumori (prima causa di anni di vita potenziali persi), delle patologie dell’invecchiamento e della infanzia, diabete e malattie metaboliche. Le patologie dell’invecchiamento, in particolare quelle croniche, sono aumentate del 50 per cento negli ultimi dieci anni e incidono, a seconda di come vengono prevenute e trattate, sul livello e sui tempi della disabilità. Il consumo di risorse socio-sanitarie per le persone oltre i 75 anni è 11 volte superiore alla classe di età 25-34 anni. I pazienti cronici rappresentano già il 25 per cento della popolazione e assorbono il 70 per cento della spesa. Emergono peraltro fattori di rischio assolutamente nuovi come pandemie, bioterrorismo, incidenti fisici e biologici. Patologie trasmissibili legate alla mobilità delle persone (turismo e immigrazione) introducono nuove esigenze di monitoraggio, di prevenzione e di interventi coordinati nella dimensione sovranazionale. C’è un aspetto che occorre segnalare con molta forza nelle caratteristiche di questa spesa e soprattutto nel rapporto costi-benefici: la profonda lacerazione tra il Nord e il Sud del Paese, che si traduce poi in minori opportunità e tutele per i soggetti più deboli. In seno alle nostre strutture troviamo il meglio e il peggio nell’ambito dei Paesi industrializzati in termini di qualità della complessiva organizzazione dei servizi. Le analisi che considerano la spesa articolata per Regioni, sotto diversi parametri, ci confermano che le criticità non risiedono in una carenza di mezzi. Non di rado, anzi, a costi elevati corrisponde una bassa qualità dei servizi offerti. Lo testimonia, del resto, la mobilità dal Sud verso il Nord alla ricerca di quei servizi che nel territorio di provenienza non sono disponibili o non sono ritenuti affidabili. Sono peraltro ben tredici le Regioni che segnalano un disavanzo. L’85 per cento del disavanzo complessivo si concentra in Lazio, Campania e Sicilia. Nella gestione dei servizi socio-sanitari, scelte organizzative diverse danno luogo a risultati differenti in termini di efficienza. Sebbene la dimensione empirica e discrezionale della medicina si sia fortemente ridotta per lasciare spazio a una medicina basata su prove di, evidenza scientifica, le aree di inappropriatezza rimangono estese. I costi operativi sono così profondamente diversificati nelle Regioni e il criterio della spesa storica, posto alla base del riparto del Fondo Sanitario Nazionale, risulta sempre più insopportabile per gli equilibri complessivi della finanza pubblica e per i cittadini che vivono nelle aree caratterizzate da maggiore efficienza. Essi accettano la doverosa solidarietà verso i territori dotati di minore capienza fiscale affinché vi sia parità di opportunità per la erogazione dei servizi essenziali, ma non sono più disponibili a finanziare a piè di lista l’inefficienza. Ne va della stessa coesione nazionale. L’eccesso di spesa pensionistica comprime la risposta a molti dei bisogni primari e, ancor di più, la capacità di prevenirne la formazione. Ciò, inevitabilmente, va a danno dei giovani in cerca di prima occupazione, delle donne senza lavoro e delle madri sole, dei disoccupati di lungo periodo, dei disabili, degli anziani disagiati, degli emarginati e dei poveri. La spesa socio-assistenziale è per lo più amministrata dagli enti locali. Secondo l’ISTAT è segnata da un grande divario territoriale: si va dai 146 euro per abitante del Nord-Est ai 40 euro del Sud. Nell’ambito di uno stesso territorio le politiche variano da comune a comune. Raramente esse sono integrate con le politiche sanitarie e socio-sanitarie. Ne derivano azioni disordinate dei soggetti istituzionali e insufficienti sinergie con gli attori sociali, a partire dal volontariato. La dinamica demografica pone l’Italia tra i Paesi con la più alta percentuale di anziani nella popolazione. La durata media della vita ha raggiunto i 77 anni per gli uomini e gli 83 anni per le donne. L’allungamento della aspettativa di vita, insieme con la forte contrazione delle nascite, è il principale determinante del progressivo aumento degli anziani e del loro peso demografico sul totale della popolazione. La percentuale degli ultrasessantacinquenni in Italia, nel 2007, è del 19,9 per cento; nel 2030 gli ultrasessantacinquenni, con 14,4 milioni di persone, costituiranno il 26,5 per cento della popolazione e nel 2045 tale percentuale aumenterà in modo cospicuo superando il 30 per cento della intera popolazione. Aumenteranno soprattutto i grandi anziani, ovvero le persone di età superiore agli 80 anni; nel 1951 erano appena l’1 per cento della popolazione, oggi rappresentano il 5,3 per cento della popolazione italiana e le proiezioni al 2045 indicano che questa percentuale salirà a circa il 12 per cento. Accanto all’invecchiamento si accompagna una maggiore incidenza della disabilità. In Italia i disabili superano i 2,5 milioni e, di questi, circa 900mila sono di fatto confinati in casa vivendo in strutture che, per le barriere architettoniche esistenti, non consentono il loro spostamento. La disabilità è una condizione molto diffusa dell’anziano tanto da coinvolgere il 12 per cento degli ultrasessantacinquenni. Se consideriamo la classe di età degli ultraottantenni, uno su tre è affetto da disabilità. In Italia, a 75 anni, l’uomo ha una aspettativa di vita di 10 anni e le donne di 12,5 anni. Il punto importante, però, è che la vita attiva di questi 10 anni, per gli uomini è di solo 1,8 anni e per le donne è di 2,1 anni. La restante aspettativa di vita è in condizioni di disabilità. Ben 8,5 e 10,2 anni, nei due sessi. Da qui il costo crescente richiesto al Servizio Sanitario, ai servizi sociali, al sistema previdenziale. Gli interventi normativi, anche recenti, che sono stati prodotti per controllare la spesa pensionistica non hanno generato una vera stabilità, essendo questa sottoposta (anche se in maniera minore della spesa sanitaria) alle pressioni di carattere demografico. Una variabile significativa sarà la definizione dei lavori usuranti. Così come la piena applicazione dei coefficienti già previsti dalla «legge Dini» potrebbe risultare non agevole e non sufficiente a rendere neutrale ai fini della spesa l’allungamento del periodo di percezione delle prestazioni. Altrettanto deficitario è il quadro delle tutele attive dei disoccupati che, per opinione unanime, dà oggi luogo a un corpus normativo disorganico e quasi ingovernabile caratterizzato com’è da successive sovrapposizioni che lo rendono neppure lontanamente riconducibile al concetto di «sistema». Nell’attuale struttura degli ammortizzatori sociali vi sono innumerevoli iniquità di trattamento (criteri di eleggibilità, durata, ammontare dei benefici). Mentre non ancora applicata, per quanto già operativa sul piano normativo grazie alla «legge Biagi», è una elementare regola di responsabilità che vuole sanzionato con la decadenza dal beneficio o dalla indennità il percettore del trattamento che rifiuti una occasione congrua di lavoro o un percorso formativo di riqualificazione professionale. La rigidità dei trattamenti costituisce, soprattutto con riferimento ai gruppi più tutelati, un ostacolo oggettivo ai processi di mobilità e al dinamismo del mercato del lavoro. Le varie forme di sostegno al reddito non solo non seguono un disegno di incentivazione per il rapido re-inserimento lavorativo, ma concorrono esse stesse ad alimentare una fiorente economia sommersa che non ha pari nel resto del mondo industrializzato. In assenza di un mercato del lavoro aperto e trasparente e di dispositivi di assistenza e presa in carico della persona in stato di bisogno si è ingenerato un utilizzo improprio – assistenzialistico e deresponsabilizzante – di strumenti che dovrebbero avere invece natura temporanea e servire ai processi fisiologici di mobilità e reinserimento al lavoro.
Politiche di Workfare e Piano straordinario per la formazione
Il cuore delle politiche sociali per una società che vuole essere attiva è costituito dalla ricomposizione delle politiche di Welfare to Work. E’ il lavoro che garantisce la possibilità di sviluppare le capacità personali incrementando la competitività del Paese e, con essa, anche le risorse che affluiscono allo Stato sociale: i bassi tassi di occupazione di cui abbiamo detto corrispondono, infatti, ad altrettanto bassi livelli di sostegno del sistema previdenziale e degli ammortizzatori sociali e della fiscalità generale. L’obiettivo è un drastico innalzamento dei tassi di occupazione regolare – soprattutto di donne, giovani e over 50 – avvicinando così l’Italia ai Paesi, come il Regno Unito e l’Olanda, che attraverso robuste politiche per l’occupabilità si sono da tempo attestati su alti livelli di partecipazione al mercato del lavoro. Proprio un mercato del lavoro con queste caratteristiche costituisce la migliore tutela per il lavoratore: egli non è più abbandonato a se stesso, può conoscere tempestivamente tutte le opportunità corrispondenti alle sue competenze, è immediatamente individuato quando il periodo di disoccupazione involontaria o di occupazione temporanea dura troppo a lungo, è accompagnato al lavoro da servizi efficienti, primi tra tutti quelli di formazione e orientamento.
Domande:
1. Per incrementare drasticamente i tassi di occupazione regolare, soprattutto dei gruppi più svantaggiati, è ancora plausibile sviluppare una onerosa politica di pura incentivazione economica che non tiene conto dei penetranti disincentivi normativi e burocratici che tanto incidono sulla vitalità di un mercato del lavoro che, oramai, è diventato adulto e che non tollera più una visione repressiva incentrata sulla patologia come regola? Per creare maggiori e migliori posti di lavoro non serve piuttosto, e prima di tutto, una robusta semplificazione e de-regolazione delle regole di gestione dei rapporti di lavoro?
2. Quale può essere il ruolo delle relazioni industriali per incrementare i tassi di occupazione regolare e sostenere, attraverso nuovi modelli di organizzazione del lavoro e il reciproco adattamento di lavoratori e imprese, la maggiore qualità e produttività del lavoro? E’ possibile costruire un mercato del lavoro più flessibile e dinamico garantendo al tempo stesso al lavoratore diritti basilari quali la salute e la sicurezza sul lavoro, una stabilità sostanziale (basata su competenze e formazione continua piuttosto che su norme di legge) e una giusta retribuzione? Questa impostazione non richiede una maggiore attenzione alle transizioni professionali, a partire dalla transizione dalla scuola al lavoro, con il definitivo decollo di un nuovo sistema di ammortizzatori sociali?
3. Quali sono le premesse per una riforma del sistema degli ammortizzatori sociali che garantisca a tutti coloro che hanno lavorato, vuoi in forma subordinata vuoi anche in forma autonoma, una indennità di disoccupazione sviluppando al tempo stesso un sistema integrativo su base mutualistica? Come costruire questo secondo pilastro mutualistico? Una risposta può essere nella bilateralità?
4. Perché le politiche di Welfare to Work, e della formazione in particolare, stentano a decollare in Italia? La marcata spaccatura tra Nord e Sud del Paese contribuisce alla indifferenza ovvero alla sfiducia verso una logica promozionale di ricerca attiva del lavoro? Cosa impedisce l’operatività della basilare regola di responsabilità, prevista dalla riforma Biagi, che vuole sanzionato con la decadenza dal beneficio o dalla indennità il percettore del trattamento che rifiuti una occasione congrua di lavoro o un percorso formativo di riqualificazione professionale? Perché i regimi di accreditamento su base regionale dei servizi al lavoro non sono decollati?
5. Cosa ha impedito il rilancio del sistema del collocamento? Come rendere efficace il sistema telematico di incontro tra domanda e offerta di lavoro? Perché i tanti soggetti abilitati all’incontro tra domanda e offerta di lavoro (scuole, università, comuni, enti bilaterali, associazioni di categoria, ecc.) non si sono attivati lasciando ampio spazio a mediatori privati non autorizzati? Fermo restando il principio della gratuità del servizio per il lavoratore, serve in quest’area una ulteriore de-regolmentazione fino a superare il sistema dei regimi di autorizzazione?
6. Cosa impedisce di rendere effettivo il sistema di formazione? Perché la formazione in alternanza e l’apprendistato non hanno pienamente funzionato? Riscoprire la vocazione formativa dell’impresa può essere la risposta giusta e meno costosa rispetto a un sistema di formazione pubblica che non decolla e che non risponde alle esigenze della domanda di formazione da parte di lavoratori e imprese? Infine, è mancata una specifica politica per la povertà assoluta, nemmeno individuata perché nascosta dalla mancanza di rappresentanza e da un più vasto – ma diverso – fenomeno di impoverimento relativo.
b) La visione: la vita buona nella società attiva
Il difficile quadro delle compatibilità macro-economiche rende ancora più inaccettabili le inefficienze e le distorsioni del modello attuale. Sbaglieremmo, tuttavia, se volessimo spiegare la grave crisi del sistema italiano di Welfare ricorrendo unicamente a freddi indicatori economici e a vincoli di bilancio sempre più stringenti. La crisi del modello sociale italiano è, prima di ogni altra cosa, una crisi culturale e di valori, a partire dal misconoscimento della centralità della persona, dalla insufficiente attenzione alla primaria difesa della vita, dalla ricorrente negazione del ruolo della famiglia. Ciò ci pare dimostrato dai limiti e dai condizionamenti dello stesso dibattito sul futuro del Welfare-State. Esso si basa su categorie, spesso solo enunciate, divenute nel tempo generiche e, anche per questo, senza più capacità di incidere, suscitare emozioni, condizionare in positivo i comportamenti concreti delle persone. Non sono mancati, in questi anni, tentativi di riforma e riequilibrio della spesa sociale. Essi sono stati tuttavia parziali: non solo perché condizionati dalla scarsità di risorse pubbliche, ma anche per l’assenza di una “visione” strategica d’insieme. Formulare una proposta compiuta, ancorata ad una solida visione della comunità: questo è il vero salto culturale a cui siamo chiamati nella progettazione e condivisione del modello sociale del futuro positivo e sostenibile. Solo all’interno di un orizzonte integrale, che abbracci la persona nella sua totalità, in sé e nelle sue proiezioni relazionali, è infatti possibile replicare, con argomenti solidi, a chi contesta la fissazione di precisi vincoli di compatibilità macro-economiche come prerequisito rispetto alla progettualità sociale, ma anche a chi oggi ritiene che le politiche sociali siano un freno alla competitività. Per quanto si muovano da visioni contrapposte, entrambe queste posizioni trascurano la circostanza che, nella economia della informazione e della conoscenza, i paradigmi dello sviluppo economico e quelli dello sviluppo sociale tendono a convergere nella valorizzazione della persona. Le politiche sociali possono dunque risultare funzionali non solo a ridisegnare costantemente i diritti e le tutele delle singole persone, secondo le tradizionali logiche dei sistemi di Welfare, ma anche a costruire una società che sia al tempo stesso dinamica e assai più competitiva. Ciò a condizione che venga posta al centro del sistema la persona con i suoi diritti e le sue potenzialità, ma anche con le sue responsabilità. Una società ha futuro soltanto se investe su sé stessa. Se sa cioè immaginare scenari, e definire correlate strategie, che si collocano oltre la soluzione dei problemi più contingenti. Una società orientata al futuro è solida e responsabile nella misura in cui dà prospettive, punti di riferimento e certezze in primo luogo alle generazioni più giovani, a quelli che saranno gli adulti di domani. Per questo motivo vanno favorite le politiche di ingresso immediato nei giovani nel mondo del lavoro, come prima pietra della costruzione delle proprie scelte di vita. Percorsi scolastici privi di ritardi, molteplici esperienze lavorative durante la fase degli studi, immediato ingresso nel mondo del lavoro costituiscono le tre variabili che possono incidere positivamente sull’anticipo delle scelte responsabili di vita, a partire dalla procreazione. Politiche lavorative, politiche sociali e politiche sanitarie trovano tutte nell’obiettivo di anticipare le grandi scelte personali dei giovani e nel progettare un futuro solido e corretto un loro piano di coerenza, accompagnandolo con adeguate politiche di prevenzione (delle patologie) e di sostegno (nei casi di insuccesso). Alle politiche di incentivazione dell’autonomia personale nelle scelte giovanili devono corrispondere reti di prevenzione e di condivisione sociale dei rischi connessi. La tesi centrale di questo Libro Verde è che una società attiva è insieme più competitiva, perché caratterizzata da una alta dotazione di capitale umano, ma anche più giusta e inclusiva, perché capace di connettersi e costruire solide relazioni sociali. Di essere cioè una comunità che, a partire dalla cellula vitale e primaria della famiglia, sa stare insieme e crescere investendo sui più giovani e sul futuro. E questa tesi vuole essere la risposta alle ricorrenti visioni nichiliste di una società nella quale molti sembrano avere smarrito il senso stesso della vita. E’ questa, al contrario, una società della «vita buona» in cui la dimensione personale e la dimensione sociale sono simultaneamente perseguite in modo da non trascurare i diversi aspetti costitutivi della esperienza elementare dell’uomo: la salute, il lavoro, gli affetti e il riposo. Il sistema di Welfare non deve pertanto essere smantellato. E la spesa sociale non va tagliata. Essa va governata e riorientata in modo da rendere il sistema non solo finanziariamente sostenibile, ma anche più equo ed efficiente perché realmente in grado di incoraggiare la natalità, abbattere le barriere, facilitare la mobilità, combattere le discriminazioni, prevenire i bisogni, contrastare la povertà. Al rinnovamento interno deve peraltro corrispondere anche un impegno della Unione Europea affinché il processo di liberalizzazione degli scambi commerciali si accompagni con il riconoscimento universale di alcuni diritti minimi in modo che sviluppo economico e dimensione sociale procedano ovunque di pari passo. Sarebbe sufficiente un riferimento alle convenzioni fondamentali dell’ILO in materia di salute e sicurezza nel lavoro e di diritto alla libera associazione sindacale. In questo scenario non facile è compito del Governo determinare, con il concorso responsabile delle Regioni e delle parti sociali, un riequilibrio complessivo, oltre che un miglioramento del rapporto tra costi e benefici, per l’insieme di tali spese. Rinnovate politiche per lo sviluppo sociale non sono rivolte solo a una più equa distribuzione della ricchezza, ma devono essere esse stesse funzionali a una maggiore capacità di crescita della nostra economia. Negli ultimi dieci anni l’Italia è cresciuta a un tasso pari a meno della metà della media dell’Europa a 15 (1,3 contro 3,2 per cento) e oggi ha un PIL pro capite che, a parità di potere di acquisto, è inferiore di ben 9 punti percentuali alla media europea. Una moderna politica sociale, peraltro può liberare una maggiore capacità di generare ricchezza se sollecita nuovi stili di vita, previene le malattie e promuove ambienti sicuri, investe nella ricerca biomedica e favorisce la connessa innovazione industriale, garantisce il continuo aggiornamento delle conoscenze e delle competenze e – con esse – la occupabilità delle persone, regola in termini meno formali e più sostanziali i rapporti di lavoro, stimola una stretta relazione tra salari e produttività, incoraggia il coinvolgimento dei lavoratori nella vita della impresa, sottrae risorse all’area della inefficienza riassegnandole alle tutele attive.
La ricerca biomedica
La ricerca biomedica è il settore della scienza che ha recentemente avuto e avrà il più grande sviluppo in termini di scoperte epocali, ricadute applicative, nuove realtà di impresa (genoma umano, biologia delle staminali, silencing e regolazione di geni, trasduzione di segnali cellulari, biotecnologie per la salute ecc.). La ricerca per quanto si definisca in vari modi, di base o fondamentale, applicata, clinica, traslazionale, è vera conoscenza e quindi può generare progresso soprattutto quando è ricerca di base, cioè quando valida nuove teorie, propone nuove leggi, spiega meccanismi prima sconosciuti. Tutta la biomedicina (biochimica, genetica, microbiologia, virologia, immunologia, biologia molecolare, fisiologia) è scienza di base. In ambito clinico il fondamento del sapere, il concetto di arte medica di un tempo (autoreferenzialità del clinico), è oggi soppiantato da quello di una scienza applicata o evidence based medicine, una medicina cioè che adotta protocolli diagnostici e terapeutici sul malato in base a rigorose osservazioni sperimentali. Medicina clinica e biomedicina sono quindi inscindibili e come tali vanno considerate in ambito accademico-formativo, sanitario e di politiche di sviluppo. Nel contesto economico-finanziario attuale, in un Paese come l’Italia che ha investito poco e male in high tech per decenni, vi è la necessità di razionalizzare le risorse, avviando iniziative nelle aree tematiche principali della ricerca biomedica, investendo in progetti di ricerca che coinvolgano networks con massa critica di competenze, puntando sul merito e sulla qualificazione dei proponenti e su piattaforme tecnologico-strutturali condivise quali: genomica, epigenetica, proteomica, imaging, nanobiotech.
7. Come è possibile promuovere e sostenere la ricerca biomedica, pur non trascurando gli aspetti applicativi che di questa sono spesso ricadute? Quali sono le aree tematiche e applicative da considerare come prioritarie?
8. Quale potrebbe essere la migliore struttura dei bandi di ricerca per garantire un reale sviluppo della ricerca biomedica in Italia? E di conseguenza, quale potrebbe essere il sistema migliore di valutazione delle proposte di ricerca? In questo contesto quale potrebbe essere il ruolo giocato da Università e da altri Enti di Ricerca già presenti sul territorio?
9. Quali le piattaforme tecnologiche da richiedere come prerequisito per competere in progetti di ricerca biomedica avanzata?
10. Come valorizzare il metodo e la qualificazione scientifica nella ricerca biomedica e come incentivare i giovani a perseguirla?
11. Quale deve essere il rapporto tra la ricerca biomedica e i principi inerenti la dignità della persona?
c) Gli obiettivi quantificabili
La costruzione del nuovo Welfare deve avvalersi di un costante monitoraggio e di un approccio per obiettivi, in modo da consentire ai decisori e ai loro interlocutori sociali di misurare continuamente l’avvicinamento ai risultati attesi, l’effettiva utilità delle politiche adottate, l’opportunità di correzioni nel caso di scostamenti, il confronto con i sistemi dei Paesi concorrenti. Potrebbe essere così un tema rilevante del confronto indotto da questo Libro Verde la definizione di un set di indicatori della vita buona e della società attiva e di un sistema condiviso di monitoraggio e valutazione. Certamente dovrebbero considerarsi i tassi di natalità e l’aspettativa di vita, il grado di soddisfazione della domanda di servizi di cura all’infanzia, i tassi di occupazione e di attività dei giovani, delle donne e degli anziani, l’effettivo livello di conoscenze dei giovani – con particolare riguardo alla matematica, le scienze e le tecnologie – e i tassi di partecipazione dei lavoratori alle attività formative, gli indici di frequenza degli infortuni nel lavoro, sulla strada e negli ambienti domestici, il livello di diffusione degli screening oncologici, ecc. Il ricorso agli indicatori europei previsti in materia di politiche per la salute, l’innovazione, la crescita e l’occupazione potrebbe consentire un costante becnhmarking e il superamento di logiche autoreferenziali. 2. Il nuovo Welfare integrato delle pubbliche amministrazioni, delle comunità e della responsabilità personale Le politiche sociali hanno tradizionalmente il compito di dare sicurezze alle persone “dalla culla alla tomba” in termini tali da farne cittadini a pieno titolo. Questa funzione, propria di ogni modello di Welfare, non solo deve essere confermata ma, anzi, rafforzata sul piano della effettività e della congruità tra obiettivi, risorse e strumenti. La modernità della visione – propria di una società attiva e orientata al futuro quale oggi l’Italia non è – sta piuttosto nella capacità di elaborare una più compiuta definizione del bene-essere fisico e psichico delle persone. Nella capacità di individuare i nuovi fattori di rischio e governare le nuove patologie, di costruire solidi percorsi di pari opportunità per tutti, di disegnare in conseguenza nuove politiche redistributive della ricchezza prodotta, che non si limitino a erogare sussidi di tipo risarcitorio o assistenziale a chi esce dalla condizione di soggetto attivo, come nel caso dei trattamenti pensionistici. Ciò comporta una riflessione critica sul reddito minimo garantito alle persone in età di lavoro mentre forme di sussidio potrebbero riconoscersi a coloro il cui stato di bisogno o la cui età è tale da non consentire che il lavoro sia la doverosa risposta alla indigenza.
La povertà assoluta
La lotta alle povertà estreme, ai bisogni degli ultimi, è uno dei principali obiettivi per la costruzione di una società fondata sulle opportunità e sulla solidarietà. Il sistema di Welfare non può ignorare le esigenze dei cittadini più in difficoltà, di quelli che si trovano nella indigenza, al di sotto delle condizioni economiche minime. Il contrasto alla povertà avviene certamente con la promozione di una società attiva, sostenendo la creazione di posti di lavoro, costruendo strumenti di orientamento e di accesso al lavoro personalizzati, valorizzando un sistema retributivo che incoraggi la produzione di ricchezza. In questo contesto, tuttavia, occorre riconoscere che esistono soggetti a forte rischio di esclusione sociale a cui è preclusa l’entrata nel mondo del lavoro.. Tra questi gli anziani oltre i 65 anni con la sola pensione minima, le famiglie con un solo genitore (spesso donna) e con figli minori a carico, quelle con figli portatori di disabilità o di disagio psichico. E’ questa dimensione della povertà, quella assoluta, che deve essere riscoperta e affrontata, al fine di assicurare una vita buona anche a coloro che si trovano nelle condizioni più difficili. Domande:
12. Negli ultimi anni il dibattito e le analisi economiche hanno sempre evidenziato il tema della povertà relativa, dell’impoverimento relativo delle famiglie. Di fronte ai rapidi mutamenti della tecnologia, alle evoluzioni della globalizzazione, alla disgregazione dei corpi intermedi e ad un accentuato individualismo della società, tuttavia, più grave è l’emergere di situazioni di bisogno estremo. E’ giusto per un Welfare attivo e delle opportunità recuperare il concetto e la dimensione della povertà assoluta?
13. Dal 1992 l’Unione Europea ha sottolineato la necessità di un modello sociale più forte e di politiche attive per l’inclusione sociale. Nella recente Agenda Sociale ha nuovamente richiamato la lotta alla povertà come elemento fondante delle politiche di coesione sociale. In Italia, il dibattito è stato tradizionalmente rivolto alla necessità di varare uno strumento universalistico di reddito minimo. Ma l’esperienza è stata fallimentare. Quali strumenti possono oggi caratterizzare una politica di contrasto alla povertà assoluta? Quali le responsabilità dello Stato e quali gli strumenti per il sostegno alla famiglia e alle comunità locali?
14. Quali sono oggi le categorie più a rischio di povertà assoluta? Con quali strumenti individuare i soggetti a rischio? Quali reti attivare per affrontare le situazioni di bisogno estremo? La concessione di tutele e benefici deve essere condizionata piuttosto, ovviamente là dove possibile, alla partecipazione attiva nella società, nell’ottica virtuosa del binomio opportunità – responsabilità, e deve essere indirizzata anche verso coloro che, con comportamenti attivi e stili di vita responsabili, possono e vogliono operare come moltiplicatori di risorse e ricchezza e comunque prevenire lo stato di bisogno. L’ipotesi su cui il Governo intende aprire un dibattito pubblico è, dunque, quella di un Welfare delle opportunità: un Welfare fortemente comunitario e relazionale che interviene nell’intero ciclo di vita – dal concepimento alla morte naturale – in modo da rafforzare l’autosufficienza della persona e prevenire il formarsi del bisogno. Questo Welfare si fonda sulla capacità di offrire continuamente opportunità e servizi alla persona, in una logica complessiva di “presa in carico” a cui corrispondono – o devono corrispondere – precise responsabilità della persona destinataria. È un Welfare che conserva un carattere universale, ma che ovviamente deve saper coniugare la caratteristica della universalità con quella della personalizzazione e anche della selezione dell’intervento, perché i bisogni non si presentano in modo uguale in tutte le persone. La complessità ed eterogeneità dei bisogni, le caratteristiche di una società che invecchia e che fa meno figli, i mutati rapporti tra le generazioni e le limitate disponibilità della finanza pubblica, assegnano oggi alla persona, alla famiglia e agli altri corpi intermedi nuove e maggiori responsabilità a tutela dei più deboli e bisognosi.
I servizi di cura per l’infanzia
La Strategia di Lisbona ha fissato per l’Italia una copertura media della domanda su tutto il territorio nazionale pari all’obbiettivo del 33 per cento. L’Italia è attualmente lontana da questo traguardo e lo stesso Piano per lo sviluppo dei servizi socio-educativi per la prima infanzia 2007-2009 vuole passare dal 9 per cento di copertura media nazionale al 14 per cento. Pesano su queste previsioni la difficoltà gestionale con cui si confrontano le Regioni che partono da un livello molto basso di copertura della domanda (segnatamente quelle del Mezzogiorno) e la capacità del sistema di non rimanere vittima di veti pregiudiziali e rigidità interpretative: occorre qualità e flessibilità e pieno utilizzo delle risorse pubbliche e private, anche valorizzando maggiormente le libere scelte delle famiglie italiane. Sarà senz’altro necessario proseguire con lo sforzo finanziario da parte dello Stato ma anche promuovere diffusamente una pluralità di soluzioni, dai nidi aziendali e interaziendali ai servizi condominiali o interfamiliari. Solo in questo modo è ragionevole l’obiettivo di un più drastico innalzamento del tasso di soddisfazione della domanda. Del resto Gran Bretagna e Germania, per noi un riferimento nel benchmarking di settore, stanno affrontando gli stessi problemi: la Gran Bretagna con la National Childcare Strategy varata nel 1997 e la Germania, più recentemente, con il Piano Nidi 2007-2013, che prevede di triplicare il numero di asili nido, passando dagli attuali 250mila a 750mila nel 2013. L’Italia può e deve fare di più per i bambini e le famiglie anche in considerazione del ruolo strategico che questi servizi rivestono per la occupazione femminile.
15. Quali e quante risorse investire per incrementare, nei prossimi anni, i servizi per l’infanzia e la famiglia in modo sostenibile? Come favorire maggiormente l’iniziativa delle famiglie in questo settore?
16. Come costruire un sistema di indicatori di qualità per tutti i servizi socio-educativi 0-3 anni? Come coniugare ulteriormente qualità dei servizi e loro flessibilità? Prevedere per provvedere è un paradigma che non deve più applicarsi solo alle scelte dello Stato sociale, ma deve investire direttamente le scelte delle persone e delle famiglie. Occorre auto-organizzare il futuro, costruire anche direttamente il proprio percorso di bene-essere lungo tutto l’arco della vita. È l’idea della persona, peraltro non isolata, che risponde in prima istanza da sé al proprio bisogno – della persona cioè che vive in maniera responsabile la propria libertà e la ricerca di risposte alle proprie insicurezze – a essere al centro di questo Libro Verde sul futuro del modello sociale. Basti pensare alla rilevanza nelle politiche della salute degli investimenti nelle conoscenze del cittadino in materia di prevenzione, stili di vita, percorsi diagnostico-terapeutici, opportunità di cura affinché diventi soggetto attivo in alleanza con il medico. È giunto il momento di gettare le fondamenta per un nuovo Welfare che, per garantire pari opportunità e diritti sostenibili lungo l’intero ciclo di vita a tutti i componenti della società, si avvalga primariamente, e in una logica di piena sussidiarietà, del contributo di soggetti responsabilmente attivi. Soggetti che, proprio in quanto tali e in quanto messi nella condizione di sviluppare pienamente le proprie potenzialità, sono capaci di essere utili a sé e agli altri. E’ finito il tempo della contrapposizione, tutta ideologica, tra Stato e mercato ovvero tra pubblico e privato. Un Welfare delle opportunità non può che scommettere su una virtuosa alleanza tra mercato e solidarietà attraverso una ampia rete di servizi e di operatori, indifferentemente pubblici o privati, che offrono, in ragione di precisi standard di qualità ed efficienza coerenti in tutto il territorio nazionale, non solo semplici servizi sociali e prestazioni assistenziali, ma anche la promessa di una vita migliore – e, nei casi estremi, anche solo della vita stessa – incidendo su comportamenti e abitudini negativi e in grado di proporre nuovi stili di vita. Mentre il vecchio Welfare si è concentrato con maggiore o minore successo, e con una certa dose di paternalismo, su singoli bisogni e su specifiche situazioni di disagio o debolezza, un moderno Welfare deve essere capace di fornire una risposta globale ai diversi bisogni della persona. Fondamentale, in questa prospettiva, è la capacità di “fare comunità”, a partire dalle sue proiezioni essenziali che sono la famiglia, il volontariato, l’associazionismo e l’ambiente di lavoro, sino a riscoprire luoghi relazionali e di servizio come le parrocchie, le farmacie, i medici di famiglia, gli uffici postali, le stazioni dei carabinieri. E’ solo in questo modo che pare possibile costruire una rete diffusa e capillare di servizi e nuove sicurezze ad integrazione della azione dell’attore pubblico.
Assistenza primaria e medicina generale
Un Welfare delle opportunità rivolto all’integralità della persona deve poter dare una adeguata risposta al bisogno di assistenza primaria, caratterizzato da specificità, complessità, forte integrazione tra parte sanitaria -di promozione della salute, prevenzione delle patologie e loro cura- e parte sociale. Si rende necessario valorizzare il ruolo e la dignità professionale del medico di medicina generale, affinché possa realmente divenire punto di riferimento e risposta alla domanda di assistenza primaria, che deve prevedere la presa in carico della persona, fondata su una valorizzazione del rapporto di fiducia medico-paziente. Ciò anche tenendo conto che il ripristino della dignità professionale e del ruolo del medico generale ha come momento chiave la sua specifica formazione, i cui contenuti e le cui metodologie andranno individuati a livello nazionale, in modo da garantire uniformità di approccio assistenziale sull’intero territorio nazionale.
17. Come è possibile ridefinire il ruolo del medico di medicina generale in modo da rispondere appropriatamente ed efficacemente ai crescenti bisogni di accessibilità, continuità assistenziale e soprattutto di integrazione con gli altri segmenti del SSN? Come coniugare il medico di medicina generale con le strutture del servizio sanitario in modo da costituire una risposta di rete ai bisogni della comunità e contribuire attivamente all’empowerment dei cittadini e alla responsabilizzazione della persona e del nucleo familiare nel perseguimento del massimo livello possibile di bene-essere?
18. Attraverso quali strumenti è possibile valorizzare la medicina generale, anche nella fase di formazione dei medici, e sviluppare la relazione medico/paziente tenendo in doverosa considerazione aspetti quali la capacità di relazione e di comunicazione? Frammentare i bisogni e le risposte del Welfare a questi stessi bisogni appartiene a una logica del passato. Una logica riparatoria, pubblicistica e assistenzialistica, nel senso deteriore dei termini, che alimenta i fattori di disuguaglianza sociale e che, in ogni caso, non trova più rispondenza rispetto ai nuovi modelli organizzativi della società e della economia. Molte comunità locali hanno già ampiamente dimostrato l’importanza di una maggiore soggettività e di un autentico protagonismo della società civile, a partire dalla famiglia, ad integrazione del ruolo dell’attore pubblico. E solo attraverso una piena applicazione del principio di sussidiarietà è stato possibile aiutare la società civile a realizzare un percorso di auto-organizzazione e auto-determinazione fondato sui valori comunitari della libertà, della solidarietà, della coesione sociale, del rispetto della vita e del bene comune.
Il modello di integrazione socio-sanitaria: le politiche per le persone anziane
Il passaggio al Welfare positivo significa sviluppare un modello dinamico di integrazione socio-sanitaria-assistenziale, caratterizzato da una offerta di interventi rivolti alla persona e alla famiglia lungo tutto il percorso della vita e che sostenga le fragilità, favorendo la promozione e lo sviluppo di capacità individuali e di reti familiari. Le modifiche demografiche, e in particolare l’invecchiamento, sono sfide importanti per la società che si interroga sugli equilibri possibili e le compatibilità economiche. Ne consegue che qualsiasi politica, perché sia efficace, presuppone l’evolversi di una società integrata e solidale che tenga conto dei bisogni dell’anziano e veda nell’invecchiamento della popolazione non un onere ma una opportunità. Per questo è necessario mettere a punto un quadro d’intervento completo e coerente che tenga conto dei mutamenti intervenuti nel rapporto tra prevenzione, cura e assistenza, del nuovo equilibrio che si è creato tra la cura formale ed informale, nonché delle difficoltà derivanti dai diversi tipi di servizi forniti. Da qui la necessità di sviluppare idonee strategie di tutela, in particolare per ciò che concerne l’assistenza sanitaria: lo sviluppo della integrazione tra i molteplici servizi sul territorio si collega al miglioramento della qualità della vita. L’anziano con la sua disabilità fisica e funzionale attiverà sempre più la richiesta di assistenza e, nello stesso tempo, movimenterà un crescente impegno economico, organizzativo e strutturale. In questa ottica la necessità di ripensare culturalmente l’approccio sul territorio al paziente anziano può partire dalla individuazione di alcune criticità prioritarie: – continuità assistenziale tra territorio e ospedale; – corretto targeting del paziente anziano nei vari setting assistenziali; – identificazione delle patologie a gestione prevalentemente territoriale; – formazione geriatrica per le figure professionali coinvolte. In sostanza, si tratta di favorire: – l’integrazione delle politiche (sanitarie, socio-sanitarie e sociali); – l’integrazione tra i soggetti istituzionali (Regione, ULSS, Comuni) e con i soggetti sociali; – l’integrazione operativa tra servizi (sanitari, socio-sanitari, e sociali); – l’alleanza tra soggetti erogatori pubblici e privati.
19. Quale la dimensione territoriale che più efficientemente può trattare tutte le patologie che non necessitano di assistenza ospedaliera e favorire assistenza continuativa ai malati cronici, ai disabili e alle persone non autosufficienti?
20. Quali le migliori pratiche e percorsi per assicurare la continuità assistenziale prendendo in carico il paziente e guidarlo, con processi attivi, nei complessi percorsi della rete dei servizi?
21. Come è possibile articolare la rete dei servizi sviluppando un connubio virtuoso tra sistema pubblico, famiglia, privato sociale e reti di supporto del volontariato, anche promuovendo nuovi strumenti per facilitare la permanenza a domicilio della persona non autosufficiente e lo sviluppo dei progetti di vita indipendente per le persone con disabilità? Determinante appare la possibilità di integrare in sistemi continui il ruolo dei diversi operatori pubblici, delle famiglie, del volontariato, degli operatori privati accreditati. Solo così si realizzano quelle “prese in carico” delle persone in funzione della loro salute o della loro occupabilità che sono nel tempo certificate nel «fascicolo sanitario» o nel «libretto formativo del cittadino». Si tratta di approfondire tutte le potenzialità dell’ICT per l’integrazione tra i diversi servizi offerti in modo che si realizzi tra di essi un continuum a tutto vantaggio della persona che vede accresciute e facilmente accessibili le opportunità di beneessere e di inclusione.
3. La sostenibilità
Il tema della sostenibilità del modello sociale è ancor più rilevante nel contesto di straordinaria instabilità della economia globale che vede particolarmente esposto un Paese – come è l’Italia – fortemente indebitato e viziato da alcune dinamiche di spesa difficilmente comprimibili, come nel caso della previdenza. Il nostro Welfare, da una parte, è infatti finanziato da troppo pochi attivi e, dall’altra, non contribuisce ad aumentarne il numero. Esso dà oggi troppo a troppo pochi, viziato come è da privilegi difesi corporativamente e da diseconomie dovute a inefficienze gestionali e a imponenti stratificazioni normative che, parallelamente alla evoluzione dei rapporti economici e sociali, ne hanno largamente eroso l’impianto originario e la funzionalità. In questa prospettiva il primo intervento possibile, per realizzare un modello sociale sostenibile e garantire risorse adeguate, è allargare drasticamente la base dei contribuenti, cioè di coloro che, attraverso la partecipazione al mercato del lavoro regolare, concorrono a sostenere il modello sociale stesso. I target di Lisbona (tasso di occupazione del 70 per cento, con 60 per cento di occupazione femminile e 50 per cento di occupazione degli over 50) non sono un miraggio, ma un obiettivo realistico, considerata anche l’imponente quota di economia sommersa, nella misura in cui sapremo liberare il lavoro dai troppi disincentivi normativi che ancora comprimono la vitalità e il dinamismo del mercato del lavoro senza offrire vere tutele alle persone. L’abbattimento dei disincentivi normativi al lavoro regolare – mai compensabili con incentivi finanziari – è la premessa per una progressiva riduzione del carico fiscale sul lavoro e sui cittadini. Il Welfare della «vita buona» nella «società attiva» dovrebbe peraltro perseguire l’invecchiamento sano e più in generale promuovere la salute lungo tutto l’arco della vita, lavorando su tutti i fattori che la determinano, in modo da ridurre i bisogni e i costi relativi. Il fumo e l’ipercolesterolemia spiegano il 50 per cento dei casi di infarto mentre dall’obesità deriva il 17 per cento. Vi è poi un problema di rigoroso controllo della spesa, in funzione di obiettivi non solo quantitativi, ma anche qualitativi. Una ipotesi è quella di intendere i livelli essenziali, sulla base di costi standard, alla stregua di un benchmark ovvero un termine di riferimento, per definire le risorse finanziarie necessarie a garantire – in condizioni di efficienza – i livelli qualitativi e quantitativi delle prestazioni e dei servizi (sanitari o al lavoro) in tutte le aree territoriali del Paese. L’equità non sarebbe certa ma più probabile – rispetto alla situazione attuale – grazie ai meccanismi di responsabilità innescati da una parità di opportunità cui non deve mai seguire la copertura a piè di lista delle incapacità gestionali. Ci si interroga se lo sviluppo della ricerca e delle nuove tecnologie determini maggiore o minore propensione alla spesa sociale soprattutto con riferimento a quella sanitaria. Le nuove tecnologie aprono infatti scenari inattesi per la predizione, prevenzione, trattamento delle malattie. La larga diffusione dell’ICT consente una rapida circolazione delle informazioni e una cura più mirata sul paziente. Le nuove tecnologie vanno tuttavia introdotte con attenzione per non indurre domanda impropria e per evitare un rapporto sfavorevole costibenefici. I processi di health technology assessment consentono di programmare la distribuzione delle apparecchiature con razionalità ed economicità, secondo bacini di utenza appropriati evitando sprechi di uomini e mezzi e di indurre nuova domanda. Potrebbe essere non ancora risolto il nodo della specifica sostenibilità del sistema pensionistico pubblico, per il quale dovrebbe valutarsi la necessità di promuovere un ulteriore innalzamento della età di pensione una volta completata la fase di graduale elevazione della età minima a 62 anni. Il finanziamento del complesso dei servizi di protezione sociale già oggi è caratterizzato da un significativo concorso dei soggetti privati. Essi tuttavia vi concorrono spesso in modo disordinato e alla lunga insostenibile perché non si organizzano per prevedere e provvedere a bisogni eventuali e futuri con il risultato che li sostengono con modalità c.d. out of pocket, una spesa a forte carattere regressivo. Il principio ispiratore deve essere lo stesso che ha già trovato ampi consensi e qualche positiva realizzazione nel caso del sistema previdenziale. Senza dubbio, in un sistema multi pilastro, lo Stato svolge comunque un ruolo importante, attraverso il sistema delle agevolazioni fiscali. A questo proposito appare opportuna una riflessione circa gli strumenti più appropriati per una maggiore diffusione della previdenza complementare e dei fondi sanitari complementari, attraverso la reversibilità – a determinate condizioni – della scelta del lavoratore e la eventuale “portabilità” ad altri fondi del contributo del datore di lavoro. A differenza che nel caso delle pensioni e della sanità, negli altri comparti della spesa sociale non è necessario ridurre la dimensione del pilastro pubblico. Nella maggior parte dei casi dovrebbe bastare una visione prospettica in base alla quale si cercherà di evitare una ulteriore espansione dell’intervento pubblico, in relazione al PIL, e si farà ricorso a strumenti finanziari alternativi solo a fronte delle nuove esigenze. Lo sviluppo del pilastro privato complementare è un passaggio essenziale per la riqualificazione della spesa e la modernizzazione del nostro Welfare. L’eccessiva intermediazione dello Stato nella predisposizione dei redditi per la quiescenza impedisce lo sviluppo di istituti redistributivo-assistenziali per i quali quella intermediazione è essenziale. Questi istituti non possono prescindere dalla fiscalità generale, sia che questa vada a finanziamento di produzione diretta di beni e servizi sia che essa finanzi deduzioni/detrazioni o voucher a sostegno di scelte dei cittadini, individuali o associate. Lo sviluppo dei fondi su base contrattuale, delle forme di mutualità, delle assicurazioni individuali o collettive può essere la risposta alle limitate risorse pubbliche e alla domanda di accesso a maggiori servizi. In particolare, le organizzazioni rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro possono dare vita a un robusto Welfare negoziale (collocamento, ammortizzatori, formazione, sanità integrativa, long term care, salute e sicurezza nel lavoro, certificazione dei contratti), nella dimensione nazionale come in quella territoriale, organizzando una vera e propria cogestione diffusa dei servizi che danno valore alla persona. Si tratta di esperienze già avviate e che meritano tuttavia sostegni maggiori in funzione del conseguimento di idonei livelli di massa critica.
I fondi privati
Le attività finanziarie delle famiglie sono pari a quasi quattro volte il reddito disponibile. La ricchezza complessiva netta delle famiglie, tenendo conto degli immobili, è pari a oltre sette volte il reddito. La spesa privata rimane una componente essenziale delle spese sociosanitarie delle famiglie italiane. In questo quadro, le diverse forme di mutualità fra privati, realizzate attraverso la bilateralità, le assicurazioni private o le forme miste, sia quelle di natura previdenziale sia quelle di natura socio-sanitaria, possono concorrere in maniera efficiente ed equa a migliorare la gestione dei rischi, specie di quelli di maggiore rilievo. Per questo motivo, queste realtà devono essere collocate all’interno di una visione organica del sistema di Welfare del Paese. Occorre dare, dunque, maggiore impulso allo sviluppo della previdenza complementare nonché ai fondi sanitari integrativi del servizio pubblico al fine di orientare e convogliare la spesa privata verso una modalità di raccolta dei finanziamenti che, nel rispetto del principio di solidarietà generazionale, sia in grado di porsi accanto al finanziamento pubblico di derivazione fiscale ed integrarlo. Si potrebbe favorire così la “socializzazione dei rischi” e la conseguente riduzione dei problemi di selezione degli iscritti. Lo Stato può disegnare un quadro normativo adeguato, offrire benefici fiscali, aiutare le parti e soprattutto le persone a prendere atto dei limiti, ormai ineludibili, dell’intervento pubblico.
22. Attraverso quali strumenti è possibile garantire una ulteriore implementazione della previdenza complementare, che, soprattutto per le giovani generazioni, possa costituire un canale di protezione efficace per il futuro?
23. Quali possono essere le necessarie modifiche normative che permettano ai fondi privati di realizzare il collegamento tra sanitario e sociale/assistenziale? In questo contesto, è la non autosufficienza il primo e più grave problema che tali fondi possono contribuire ad affrontare, integrando anche pacchetti differenziati tra giovani e anziani, al fine di promuovere una più solida solidarietà intergenerazionale? Può essere oggetto di rivalutazione il fenomeno – un tempo più esteso – della liberalità. La sperimentazione del 5 per 1000 dovrebbe essere condotta a regime anche se su una platea di beneficiari più selezionata. Ad essa va riconosciuto il merito di avere non solo orientato risorse su attività meritevoli, ma anche di avere stimolato una cultura della donazione. Su questa base può ora essere agevolata la diffusione di forme di fund-raising in favore di progetti trasparenti nella loro finalità e nella possibilità di verificarne gli esiti. La evidente esigenza di investimenti pluriennali per l’ammodernamento e la riconversione della rete ospedaliera si potrebbe soddisfare diffondendo le forme nuove di finanziamento come il project financing, il leasing immobiliare, le società miste.
4. La governance
E’ innanzitutto auspicabile che l’attuale legislatura possa introdurre il federalismo fiscale e riformare, in termini quanto più condivisi tra gli schieramenti, la seconda parte della Carta costituzionale con particolare riguardo al suo Titolo V. Tuttavia, anche nel contesto dell’attuale assetto delle competenze di Stato e Regioni, la gestione coordinata dei livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi, il relativo monitoraggio della qualità delle erogazioni e della spesa, i percorsi straordinari di razionalizzazione della spesa, potrebbero essere affidati a forme condivise di pilotaggio “centralizzato”, utili anche a trasmettere le buone pratiche in un Paese così diviso tra le migliori e le peggiori gestioni. Nel mercato del lavoro, con riferimento ai servizi (pubblici e privati) per l’impiego e al sistema di monitoraggio e valutazione delle politiche di Welfare to Work, una simile cabina, per quanto già tratteggiata sul piano normativo attraverso la riforma Biagi, non è mai decollata. Vi potrebbero contribuire professionalità selezionate in termini competitivi nell’ambito degli enti esperti del Ministero (Isfol e Italia Lavoro) Anche in ambito sanitario il Patto per la Salute tra Governo e Regioni potrebbe essere sostenuto da uno strumento operativo come una rivitalizzata – in termini condivisi – Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (ASSR). Avere a disposizione un benchmark di riferimento e due strumenti che tra di loro devono essere letti, ovviamente, in modo integrato (da un lato, il controllo finanziario, di gestione contabile; dall’altro, la possibilità di verificare continuamente lo scostamento rispetto agli obiettivi di qualità) potrebbe consentire un pilotaggio molto più stretto e condiviso, tale da non viziare il nostro assetto istituzionale, se si vuole allo stesso tempo predisporre una capacità delle Regioni rispetto all’appuntamento del federalismo fiscale che, come è noto, interessa largamente la spesa sociale. La spesa sociale e le relative politiche non potranno non diventare anzi il metro su cui costruire il federalismo fiscale. Un passaggio delicato sarà il superamento della spesa storica, non solo essenziale per la coesione nazionale ma anche utile alle popolazioni delle aree con servizi più deboli e frammentati per innescare meccanismi virtuosi di responsabilità. Diversamente, si manterrà un circolo vizioso di cui conosciamo bene i risultati. Ragionevolmente il federalismo fiscale si sosterrà attraverso alcune deterrenze. La prima di esse è il rischio dell’innalzamento della pressione fiscale nei territori in cui la gestione è più inefficiente. Oltre una determinata soglia, il federalismo diventerebbe però una forma inaccettabile di punizione nei confronti di cittadini che, magari, non hanno neppure votato quegli amministratori. Là dove si vada oltre quella soglia di scostamento si dovrà lavorare a una ipotesi di “fallimento politico”, cioè di commissariamento dell’intero istituto regionale e quindi di consegna dei libri non al tribunale, come nel fallimento civilistico, ma agli elettori e alle elettrici. Nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale si impone una specifica esigenza di separazione tra la funzione di indirizzo politico e quella di gestione delle Aziende sanitarie grazie a criteri più trasparenti di selezione di Direttori Generali e Direttori di unità operative. L’efficacia della azione di governance dipende non solo dalle istituzioni e dall’attore pubblico, ma anche dal concorso degli attori sociali. Un sostegno centrale alla governance del sistema dipenderà dalla qualità e dal buon funzionamento di un sistema di relazioni industriali che va ora riformato secondo quelle che saranno le determinazioni delle parti sociali.
– Relazioni industriali
Per conseguire gli obiettivi di modernizzazione e sostenibilità del Welfare, le politiche sociali e del lavoro dovranno caratterizzarsi, in termini di sostegno della produttività e della crescita. E’ questa la sola strada per superare una strategia meramente difensiva, e di breve periodo, che non aiuta a gestire le tensioni sociali e ad affrontare l’annoso nodo della produttività. Decisivo, in questa prospettiva, è il contributo dalle parti sociali alla governance del sistema. Le parti sociali sono infatti chiamate a riprogettare, in chiave cooperativa e maggiormente partecipativa, il sistema delle relazioni industriali quale vera leva strategica per la competitività e lo sviluppo.
24. E’ possibile superare una cultura antagonista dei rapporti di produzione che, a partire dalla stessa strumentazione giuridica che abbiamo ereditato, manifesta ben più di una semplice riserva mentale sulla impresa quale fattore di sviluppo e inclusione sociale? Esistono le premesse per un rinnovato clima di fiducia e complicità tra capitale e lavoro che consenta di cementare, attraverso un quadro di convenienze reciproche, una alleanza strategica tra gli imprenditori e i loro collaboratori?
25. Un contesto di tipo collaborativo e partecipativo, che chiede al sindacato di tenere in debita considerazione i valori della impresa e della competitività, e con essi i profili della efficienza della organizzazione aziendale, può reggere senza un sistema, liberamente definito dalle parti, di partecipazione agli utili d’impresa? La dimensione collettiva delle relazioni industriali determina necessariamente la negazione della dimensione individuale, pur nell’ambito di una cornice di riferimento definita a livello collettivo come nel caso dei sistemi retributivi o dei regimi di orario di lavoro?
26. Il sostegno alla bilateralità e alla partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa, comprese le forme di azionariato, non potrebbe rappresentare la soluzione più autorevole e credibile per avviare una alleanza tra impresa e lavoratori sui temi della crescita, dello sviluppo e della giustizia sociale? La dimensione territoriale può essere luogo di contrattazione collettiva? Può essa consentire, attraverso la completa valorizzazione del sistema degli enti bilaterali, la gestione condivisa dei servizi che danno valore alla persona quali sicurezza, formazione, integrazione del reddito, ricollocamento, certificazione del contratto di lavoro, previdenza complementare, assistenza sanitaria? E’ da almeno un decennio che la riforma del sistema di relazioni industriali è al centro dell’agenda politica e sindacale. La situazione di impasse potrebbe ora essere superata pervenendo a un patto sulle regole, sostanziale più che formale, che individui sedi di confronto sulle grandi scelte strategiche della economia e della società, strumenti per governare gli effetti sociali delle trasformazioni, nuove e più adeguate regole di tipo partecipativo e collaborativo nelle relazioni sindacali e negli assetti della contrattazione collettiva e forme di prevenzione e moderazione dei conflitti sindacali.
CITTADINOLEX