La Cassazione, con sentenza 42648, ha stabilito che l’umiliazione dei figli minori non è ammessa come metodo educativo nemmeno quando il tipo di punizione -scelta dal genitore come forma di rimprovero- è priva di violenza fisica ma ha, però, il sapore della “gogna”. L’occasione di tale pronuncia è stata offerta da una vicenda in cui un padre, sospettando che la figlia avesse sottratto un ciondolo alla sorella minore, aveva punito la ragazzina facendole scrivere sul quaderno, più volte e sotto minaccia di botte, la frase “io sono una ladra, non devo rubare”.
La pena inflitta al genitore è stata la condanna a due mesi di reclusione, poi convertita nella multa di 2.280 euro.
Era il 1999 e la madre della piccola Federica, allertata dalla maestra della figlia, denunciò l’ex marito costituendosi parte civile in nome della figlia minorenne, alla quale il fatto aveva provocato un “dramma psichico”, degenerato in una forma di “depressione reattiva”, anche se non grave.
L’uomo fu condannato sia in primo grado che in appello, decisione confermata ora dai giudici di
piazza Cavour.
Il reato in oggetto è contemplato dall’art. 571 del codice penale, intitolato “abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”. Il delitto in esame comporta l’eccesso nell’uso di mezzi giuridicamente leciti, eccesso che, tramutando l’uso in abuso, lo fa divenire illecito. La norma contempla tutti i casi in cui si usino metodi atti ad umiliare, svalutare, denigrare e sottopporre a sevizie psicologiche un bambino, anche se adottati con soggettiva intenzione correttiva o disciplinare.
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ravvisato un esercizio della funzione correttiva con modalità afflittive e deprimenti della personalità e quindi contrastante con un’adeguata pratica pedagogica.
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